Sulla soglia

Lettera diocesana 2019/01

Ogni volta che un prete si affaccia sulla soglia di una camera d’ospedale o presso la casa di un ammalato, subito, forse senza nemmeno pensarci troppo, rallenta il passo, mentre la voce – che si fa pacata e sommessa – è sostituita dallo sguardo e dal tatto, capaci misteriosamente di dire ciò che le parole non sanno dire… Perché persino un «come va?» potrebbe esser di troppo…

Nonostante il male e il dolore siano un angoscioso tormento dell’uomo e della sua coscienza, i credenti sanno di poter levare lo sguardo su Colui che fu trafitto (cfr. Gv 19,37), certi che nel mistero della Croce viene donata – sotto il velo della debolezza di cui il Verbo incarnato s’è rivestito – la potenza dell’amore divino del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; così, e solo così, il dolore e la morte del primo Adamo, vittima del morso dell’antico serpente, sono state trasformate dalla mite e silenziosa obbedienza del nuovo Adamo, affisso al secco legno della Croce ora trasfigurata in albero verde, carico di frutti e di fiori.

In ragione di questa verità di fede, l’uomo, sorretto dalla Provvidenza, è chiamato anzitutto a percorrere tutte le vie che la ragione intravvede per lottare contro il male, la malattia e la morte: in tal senso ogni malato deve combattere contro la sua infermità con l’aiuto dei medici e di coloro che sono addetti al servizio degli pazienti. Ciò significa che, senza mai cedere alle lusinghe di una scienza senza etica, è necessario fare tutto ciò che può essere tentato e sperimentato per sollevare il corpo e lo spirito dei sofferenti.

Da un secondo punto di vista, il cristiano però, pur conoscendo la fragile natura umana e volendo soccorrere ogni genere di infermità, sa anche che il dolore appartiene al mistero del mondo e che, nella sofferenza di ogni creatura, si realizza – in modo a noi sconosciuto – il compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,24); sa pure che «la creazione è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,20-21). Ciò che da una parte la scienza è chiamata a fare in aiuto all’umana fragilità, lo compie, in un senso diverso ma complementare, il sacramento dell’Unzione degli infermi accompagnato dalla cura pastorale degli stessi. La Chiesa, accompagnando spiritualmente i malati e celebrando – china sopra le loro sofferenze – la liturgia dell’Unzione, invoca su di essi la grazia perché sia sollievo dal dolore e superamento della malattia. Sapendo che Dio sempre esaudisce la richieste dei suoi figli, la Chiesa sa che, nel disegno dell’Altissimo, il malato – anche se clinicamente non guarito – riceve la grazia di essere reso conforme a Cristo crocifisso, strappando il suo dolore dall’abisso dell’assurdo. L’Unzione dei malati, non è un’ultima chance per chi sta di fronte alla morte, né una flebile speranza di sopravvivenza. Essa è la conformazione dei “crocifissi dal dolore” al Crocifisso immolato e glorioso; essi sono come consacrati – potremmo dire unti – dal salvifico dolore del Servo di Dio, il Signore Gesù Cristo; sono portati dentro le sue piaghe gloriose; sono illuminati dalla sua Croce che ha dissipato le tenebre del male con la luce della sua risurrezione.

La cura pastorale degli infermi non è un semplice incoraggiamento fraterno a chi giace nel dolore della malattia; essa è piuttosto un dono, ardito e quasi ineffabile, con cui i crocifissi d’ogni tempo sono resi dall’Agnello trafitto e ritto in piedi (cfr. Ap 5,6), come un prolungamento vivente della sua Passione nella storia degli uomini, perché ciò che è scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani (cfr. 1 Cor 1,23) si riveli come la salvezza di tutti gli uomini.

Sarà per questo che quando un prete si affaccia sulla soglia di una camera d’ospedale o presso la casa di un ammalato e subito il suo parlare si fa sommesso e pacato… lo fa perché crede che quando veniamo a sapere di un malato o di un carcerato e andiamo a visitarlo… facendolo a uno solo di questi fratelli più piccoli, l’abbiamo fatto a Cristo (cfr. Mt 25,39-40).

don Gianandrea Di Donna, direttore Ufficio per la Liturgia – Padova