Testimoniare una fede concreta

Lettera diocesana_Sguardi 2020/03

«C’è ancora spazio nel mondo d’oggi per l’annuncio dell’Evangelo del Regno di Gesù di Nazaret?». È la domanda che, neanche troppo sottotraccia, inquieta il vissuto di fede personale e comunitario dei cristiani. Molti sono i sintomi, colti in particolare da chi si spende nel servizio pastorale, di una graduale messa a margine dell’esperienza cristiana, da parte del mondo contemporaneo. Spesso non si tratta di opposizione o contrasto diretto, quanto piuttosto d’indifferenza, come se si trattasse di un residuo del passato, buono forse per corredare lo sfondo della quotidianità. Perché ciò che conta è altrove.

Questa domanda è stata esplorata dalla coppia di sociologi Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, i quali hanno scritto in merito un agile libro La scommessa cattolica (il Mulino), nel quale propongono di trasformare questa strisciante marginalizzazione del cristianesimo in un kairos, per un profondo rinnovamento della Chiesa e più ancora del mondo. A patto però che i cristiani sappiano dire una parola nuova, significativa, per questo tempo. Non si tratta, quindi, di parlare di un mondo “sordo”, quanto piuttosto chiedersi se oggi i cristiani non siano, nel loro annuncio del Vangelo, “afoni” o sbiaditi.

Molti sono gli spunti offerti in merito dal testo, ma in questa sede trovo interessante soffermarci su una provocazione, che può illuminare il momento che stiamo vivendo. A un certo punto, i due sociologi, pongono la necessità di vivere e testimoniare una fede “concreta”.

Ma cosa vuol dire essere concreti? In primo luogo uscire dal crampo mentale, presente nella modernità, dell’“astrazione”, ossia della necessità di dividere e contrapporre ogni cosa, compreso l’io. Tutto ciò porta a guardare la realtà come un insieme di soggetti a sé stanti. L’individualismo imperante, frutto maturo di questa astrazione, si è manifestato anche in questi giorni: in alcuni comportamenti delle persone, ma ancor peggio nelle chiusure egoistiche tra stati nazionali. Paradossalmente, questo astratto individualismo genera, per stemperare l’insostenibile solitudine, fenomeni di fusione emotiva, dove i conflitti e i problemi vengono anestetizzati da un eccesso di emozioni, che ci fa sentire bene e tutti uniti. Al di là delle buone intenzioni, è quanto alimenta il dilagare dello slogan “Andrà tutto bene”. Disgraziatamente l’emozione si esaurisce velocemente e quanto coperto ritorna alla luce, più virulento che mai.

Essere concreti, alla luce dell’Incarnazione, significa invece guardare la realtà per quello che è. Tutta la realtà. Riuscire perciò a tenere insieme le differenze, interpretando le astratte “divisioni” (ragione e sentimento, maschile e femminile, individuo e società…) in “relazioni”. Perché la vita è sempre un di più, che coniuga gli opposti: gioie e dolori, forza e debolezza, vita e morte. La fede concreta indica “l’eccedenza” della vita, la quale è piena se anticipa e si compie in una realtà altra, ulteriore. Qui ci viene rivelata la cifra della persona, la quale è chiamata a vivere in ogni istante il “già ma non ancora”. Diventa così una fede che non sfugge dalla tensione, ma la abita. La abita nella fatica della croce, ma anche nella certezza del Dio con noi. Solo così l’abitare la tensione diviene un atteggiamento creativo di vigilanza, che mina lo status quo e spinge la realtà a rinnovarsi. Una fede nuda, essenziale, capace di essere generativa sul piano personale e sociale. E allora anche in questa ora buia potremo dire le tanto attese parole di speranza, la quale non è la certezza che tutto andrà bene, ma la consapevolezza che quanto sta succedendo ha un senso e impone qualcosa da compiere, comunque vada.

Stefano Bertin, docente, già vicepresidente Consiglio pastorale diocesano