Testimoni di relazioni di cura e di carità

Lettera diocesana 2021/04

Cercando materiale per documentarmi sul ruolo della donna nella Chiesa nell’ambito della carità, non avrei mai immaginato che l’argomento fosse così sfaccettato e ricco di spunti filosofici, antropologici, storici, sociali e psicologici: fin troppi, mi verrebbe da dire. Non è stato semplice districarsi fra posizioni tradizionaliste e progressiste, con tutte le implicazioni che tali considerazioni comportano. Probabilmente la chiave di lettura è da cercare non tanto in quello che divide queste due posizioni antitetiche, ma in quello che le unisce: quella dimensione femminile che si manifesta ed eccelle in funzioni essenziali quali l’ospitalità, la catechesi, il soccorso ai malati, agli anziani, ai bisognosi, il servizio nella preghiera. Queste caratteristiche femminili non hanno perso vivacità e importanza nel tempo, ma hanno saputo evolversi e adattarsi ai cambiamenti, alle nuove esigenze, ai nuovi bisogni.

Anche in ambito sociale, nel momento in cui è cambiato l’abituale ruolo femminile dedicato solo alla sfera privata, le donne hanno saputo comunque occupare un posto nevralgico nella gestione della quotidianità. La conciliazione sempre più complessa dei “tempi di vita” con i “tempi di lavoro” rende necessaria una funzione coordinatrice, che richiede delle capacità flessibili e un’organizzazione efficiente ed equilibrata. Tutto questo insieme, sempre più impegnativo, di incombenze fino a ieri considerate separate, si è realizzato e continua a essere fattibile grazie al senso di responsabilità delle donne, alle loro capacità relazionali, di adattamento, di flessibilità, di intuizione, di precisione.

Le caratteristiche stesse della cura sono cambiate, senza però che venisse messo in dubbio il fatto che comunque continuasse a essere prerogativa delle donne. Prendendo ad esempio il mio lavoro di medico in ambito oncologico, potrei affermare, senza tema di smentita, che anche per una buona terapia è decisivo l’aspetto relazionale, mediante il quale si può avere un approccio olistico alla persona malata. Valorizzare questo aspetto aiuta anche i medici, gli infermieri, i professionisti e i volontari a farsi carico di coloro che soffrono per accompagnarli in un percorso di guarigione, grazie a una relazione interpersonale di fiducia (cfr Nuova Carta degli Operatori Sanitari [2016]).  Si tratta dunque di stabilire un patto tra i bisognosi di cura e coloro che li curano, un patto fondato sul rispetto reciproco, sulla sincerità, sulla disponibilità, così da superare ogni barriera difensiva. In questo ruolo, le donne medico tendono a essere più disponibili, dando priorità alla dimensione relazionale e dedicando maggiori risorse a momenti di incontro riconosciuti dai pazienti. Lo stesso spirito di empatia, di amore, che si fa carità e sostegno, anima il Centro di ascolto vicariale, di cui faccio parte. Il suo scopo non è solo l’aiuto diretto, concreto, immediato ai poveri, ma è anche quello di guidare, accompagnare verso un’esperienza di carità fatta di incontro, condivisione, partecipazione, scambio reciproco affinché le persone e le comunità vengano coinvolte e sensibilizzate. Il Centro di ascolto diventa così una “porta aperta” sulla città, in cui operatori e volontari offrono uno spazio di ascolto a chi si trova in uno stato di grave marginalità.

La possibilità di condividere le situazioni di disagio attraverso il dialogo è il primo passo per cercare di affrontare ciò che costituisce ostacolo e difficoltà. Vediamo, quindi, come anche in questo ambito, la capacità di instaurare relazioni, di “farsi prossimo”, accogliere, curare, essere caritatevoli (caratteristiche che sono da sempre considerate prerogativa dell’animo femminile) riescano ad accompagnare in percorsi di sostegno e inclusione alcune situazioni di problematicità, contribuendo in tal modo a limitare le criticità, spesso sostenute da bisogni irrisolti. Il cammino di emancipazione ha portato la donna a conquistare posizioni sempre più autorevoli in ambito sociale, mettendo in luce capacità femminili che erano state ignorate nei secoli precedenti. Tutto questo ci costringe a chiederci se tali attitudini siano state sufficientemente apprezzate e utilizzate finora nella Chiesa, dove, nonostante siano state introdotte delle innovazioni, dobbiamo prendere atto di un vuoto che non corrisponde alla realtà dell’umanità e della Chiesa stessa.

Forse si dovrebbe fare una riflessione sulla necessità di un’apertura verso un riconoscimento e una sensibilità maggiori nei confronti della missione e della vocazione della donna. Il “genio femminile”, come lo ha chiamato papa Francesco nella Evangelii Gaudium del 2013, sicuramente potrà servire da stimolo per cambiamenti positivi nel percorso della Chiesa nell’ambito dell’evangelizzazione e della promozione umana. La creatività delle donne può aprire nuove vie per realizzare una comunità cristiana di discepoli, donne e uomini, insieme testimoni e predicatori della buona novella. Nonostante queste sperequazioni, comunque, la donna ha saputo interpretare ed esprimere con impegno e dedizione il ruolo, pur limitato, che la storia le ha consegnato, cioè il compito della testimonianza evangelica della cura e della carità, avendo presente che anche Maria è stata vista più come Madre di Dio e testimone silenziosa e assorta, piuttosto che come donna libera e consapevole che ha detto quel sì che ci ha salvati.

Rosabianca Guglielmi, medico e volontaria in un Centro di ascolto vicariale