Quale contributo per la nostra fede dalla riflessione antropologica e sociale?

Lettera diocesana_Sguardi 2020/03

«Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni!».

In queste settimane di quarantena da Covid19, capita di pensare parole come quelle messe in bocca da J. R. R. Tolkien all’hobbit Frodo Baggins. In esse sta forse anche una delle sfide accolte dal bel saggio di Giaccardi e Magatti: in questa (post)modernità, che sempre più appare composta da individui autocentrati (un “umanesimo esclusivo”, per dirla con Charles Taylor), dominata dalla tecnica e indifferente a Dio, la Chiesa è in difficoltà. Specie in Europa/Occidente, perde fedeli e fatica a stare al passo. Facile, per i cattolici, sentirsi un po’ come Frodo: sperduti, magari con una specie di nostalgia di tempi passati, in cui la religione aveva un ruolo più incisivo nella società. Ma davvero le religioni, e la chiesa cattolica in particolare, non hanno più nulla da dire all’individuo e alla società? Il cristianesimo è così estraneo alla modernità, e la modernità al cristianesimo?

La risposta dei due sociologi dell’Università Cattolica di Milano è chiara: no, la Chiesa ha potenzialmente ancora molto da dire. Anzitutto perché di questa modernità è genitrice (o meglio, direi co-genitrice, essendo l’identità comune europea il frutto di più eredità, tra cui greco-latina, giudaica, islamica…), dato che «la nascita della soggettività moderna è uno dei frutti più maturi di mille anni di cristianità, vero e proprio grembo da cui poi l’Io moderno è sbocciato». La “scommessa cattolica” proposta dagli autori parte da una considerazione antropologica e arriva a una possibile indicazione sociologica. Se «ciascuno è libero in relazione, poiché non siamo monadi», ne deriva che compito della Chiesa oggi sarà quello di ricordare agli individui l’importanza dell’Altro nella loro vita e alle società di una visione complessa e integrata. Invece di un approccio che si limita solo ad astrarre, e dunque a isolare piccole parti di realtà, si propone di «tornare all’intero come relazione vitale, dinamica e plurale», a uno sguardo concreto, fondato sulla vita di tutti e di ciascuno. Solo una Chiesa libera – nel mondo e allo stesso tempo non del mondo – potrà tornare a giocare un ruolo nella società, indicando un modello di libertà piena, perché consapevole delle proprie potenzialità e limiti. Una libertà evangelica: «il Padre a cui affidarsi non è un padre tiranno, ma amorevole… all’uomo non è chiesta una passiva e timorosa sottomissione, ma un’alleanza desiderata, un amore filiale nella libertà». In un tempo in cui si è sempre più “insieme da soli”, si può tornare a essere “soli insieme”: non una massa, ma un popolo, un «insieme di storie personali, singolari, che si collocano dentro un grande cammino comune».

Per avere nuova incisività nella società, occorre ripartire da una fede capace di vivere nel proprio tempo, senza rifiutarlo. Tornano in mente le parole del cardinal Martini nella sua ultima intervista: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura, invece di coraggio? Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu, per la Chiesa?». Avendo meno di trent’anni e vivendo in un mondo – quello universitario – in cui Dio sembra ormai totalmente inutile, mi permetto di aggiungere, parafrasando Etty Hillesum: che cosa posso fare io, per conservare uno spazio per Dio dentro di me? Oggi ci viene chiesto di vivere appieno questa “età secolare”. Non è tutto male. Anzi, su certe cose, penso ad esempio alla parità di genere, la modernità ha certo da insegnare alla Chiesa. Non si tratta allora di dividersi tra chi è nostalgico dei tempi andati e chi vorrebbe vivere in giorni a venire. Il punto è piuttosto, come risponde il saggio Gandalf a Frodo, «decidere come disporre del tempo che ci viene concesso».

Giacomo Ghedini, dottorando in storia contemporanea e vicepresidente giovani di Ac Padova