Pietas

Lettera diocesana 2017/07

Mi piacerebbe, anche per un solo istante, percepire cosa attraversava il cuore e la mente di Michelangelo mentre scolpiva il marmo di Carrara da cui sarebbe nata quell’opera di inenarrabile bellezza che porta il nome di Pietà di Michelangelo o Pietà Vaticana… La Vergine Madre, in silente compostezza, sorregge il corpo esanime di Gesù adagiato – senza che il peso di quel corpo abbia alcun peso – tra le sue braccia: e mentre con uno lo sorregge, con l’altro modestamente discosto sembra dire, colma di un tenero e fecondo dolore: «Guardatelo uomini tutti! Guardatelo!… Esiste forse amore più grande…?». Questa Mater dolorosa, seduta sul trono della compassione e dell’offerta, con il volto segnato dalla fortezza di una fede di chi è nella prova, con il cuore trapassato dalla lancia, guarda la passione e la morte del Salvatore del mondo e ci invita a unirci alla pietà con la quale lei stessa partecipa al morire del Figlio suo. La sua pietas è disposizione dell’animo a partecipare, nel silenzio degli umili di cuore, al dolore di Cristo, al suo sacrificio redentore. La sua pietas è quella virtù – che la teologia morale classica considerava parte della giustizia – che offre il rispetto e la deferenza verso i propri cari o il prossimo in generale, con l’atteggiamento di chi è disposto a far spazio nel proprio cuore al dolore altrui:

«Pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni» (Dante Alighieri, Convivio II, 10).

Questa stessa pietas si percepisce quando i credenti si chinano sul corpo di un proprio caro che, esalato l’ultimo respiro, è entrato nella morte: la pietas che inizia dal gesto, pacato e quasi esitante, di carezzare o baciare chi non vive più; di guardarlo, di sfiorarne la bara, di gettare una manciata di terra o un fiore quando il corpo viene calato nella tomba… Questi e molti altri gesti, cenni, parole o atteggiamenti esprimono, forse anche senza averne piena coscienza, la pietà umana e cristiana che, ancora oggi, emerge dal cuore dell’uomo quando fa l’esperienza del limite, del turbamento o del dolore che la morte altrui porta con sé.

Anche la Chiesa, detta da sempre Madre – la Madre dei credenti – ha fatto di quel suo agire rituale – il rito esequiale – un palpito di umana e cristiana pietà: la celebrazione del suffragio che si innesta nell’Eucaristia, il risuonare e l’alludere continuo e consolante alle Parole di Gesù sulla morte e la risurrezione, il canto, l’acqua, il profumo dell’incenso, l’incedere, la preghiera, i salmi, la litania, la campana, la sepoltura, la terra, il raccogliersi silenti e talora attoniti, il camminare tra le tombe del camposanto, il calare nella fossa, l’affidare alla terra, al sepolcro, il benedire, l’atto di sigillare la pietra fino al compimento dei tempi… È una storia millenaria di gesti che, ispirati dalla Scrittura e avverati da una feconda Traditio ecclesiale, accompagnano, con sapienza umana e cristiana, i passi del morire, il compiersi della vicenda umana, la preghiera del suffragio per chi esce dalla scena del mondo, il dolore di chi resta. Una storia millenaria di gesti che hanno generato e decantato la forza espressiva della fede nel Risorto che quasi predilige il gesto senza le parole e la Parola senza la didascalia…

Il tempo presente – secolare e talvolta laicista rétro – gioca tra l’indifferenza a questa pietà e la sostituzione di essa. Ne sorgono quelle estemporanee forme di commiato naïf che ora – non più intimorite nemmeno dai veti del parroco “d’altri tempi” che mette tutti a tacere con il suo latinorum di manzoniana memoria – quasi vorrebbero imporsi con una pseudo-pietas senz’anima: si preferirebbe sostituire la preghiera con i discorsi, il canto della fede con le “canzoni-che-gli-piacevano-tanto”, il mistero della morte e dell’umana e ineluttabile fragilità con i “saluti-a-lacrime-trattenute”, la fede nella vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte con la spiegazione del “perché-lui-se-ne-è-andato” o del “perché-vivrà-sempre-nei-nostri-cuori”… Poco a che fare con lo sguardo michelangiolesco di Maria in Pietà dal volto composto e silenzioso che allude a un Cuore immacolato e straziato che – più forte delle braccia – sa reggere il corpo benedetto di Gesù prima di consegnarlo alla tomba.

È trascorso il tempo delle ingenuità clericali di un certo “Sessantotto”; è noioso il verbalismo funereo delle esequie prive di un’arte del celebrare; non convince la prona accettazione di un’artefatta pietà cristiana consegnata ingenuamente a chi “vuol-fare-quel-che-vuole” perché “è-il-funerale-di-mio-padre”…

L’uomo è un mistero grande!
Grande è la morte e carica di grave solennità!
I riti della morte sono espressione di un’umanità vera!

La Chiesa deve da una parte continuare ad attingere alla sapienza della sua tradizione e dall’altra non temere ciò che lo spirito del tempo e il futuro presentano, propongono o talvolta impongono. La Chiesa ha gli strumenti per assumere, purificare ed elevare a Dio il linguaggio degli uomini credenti, anche quello della preghiera, anche quello del culto dei morti.

Non spaventa se il corteo funebre si fa in auto, tra rotonde e traffico delle città.
Non spaventa se si predilige la cremazione alla sepoltura nella terra.
Non spaventa se si chiede di “poter dire una parola”, “o fare una preghiera”.
Non spaventa se chi viene alla celebrazione dell’Eucaristia non percepisce nemmeno di poter sedere durante la Liturgia della Parola.

Non credo aiuti né il rigido rifiuto, né la rassegnata accettazione di tutto…
C’è invece bisogno di non abbandonarsi alla tentazione di de-ritualizzare tutto. Perché de-ritualizzare vuol dire perdere l’opportunità di evangelizzare.

Nelle città ad esempio (e forse anche in molte parrocchie di campagna) risulta improponibile una processione alla chiesa o al cimitero; perché allora non evangelizzare la chiusura della bara liberandola dalla servitù dello squallido rumore dell’avvitatore elettrico, prevalendo invece con la potente lettura di poche righe di Vangelo (come da Rituale! cfr. Rito delle Esequie n. 44, p. 59-60) o trasformandola con il gesto – carico di materna pietas – di coprire il volto con un umile sudario (come da Rituale! cfr. Rito delle Esequie n. 44, p. 59-60), anziché riproporre il gesto compulsivo dell’aspersorio che sembra essere diventato l’unico linguaggio esequiale rimastoci? Perché il ministero dei diaconi, dei lettori, dei cantori e dei musicisti, dei ministranti (non necessariamente bambini) si esprime con lodevole impegno pastorale nelle solennità, nelle domeniche o nella celebrazione delle nozze e non riesce a essere altrettanto eloquente nella celebrazione delle esequie che sono la Pasqua personale di ogni battezzato che passa da questo mondo al Padre? Perché non scegliere di celebrare questa “solennità-non-di-precetto-delle-esequie” durante la quale le nostre chiese si accalcano di battezzati molto più che durante le altre “solennità-di-precetto”; e – quasi consequenzialmente – perché usare le “letture-del-giorno” (tra l’altro contro le norme rituali! cfr. Rito delle Esequie n. 67, p. 89) per assemblee che hanno poca (se non alcuna) esperienza dell’ascolto ordinario e quotidiano della Parola di Dio, abbandonando progressivamente l’uso di quelle pagine evangeliche del Lezionario dei defunti (che, per chi frequenta abitualmente, potrebbero sembrare ripetitive) che hanno in sé la potenza del primo annunzio del Vangelo e del primato assoluto ed esplicito della Pasqua che sola si erge nel rito delle Esequie cristiane? Perché il ministero del diacono (o di un lettore istituito o di un catechista) non potrebbe aiutare il presbitero nella cura pastorale di raccogliere, discernere e affidare le preghiere dei fedeli, liberandole da sentimentalismi o verbalismi fuori luogo (cfr. Rito delle Esequie n. 5, p. 30)? Perché temere di convogliare all’interno del Commiato (come da Rituale! cfr. Rito delle Esequie n. 6.81, p. 30.103) il cristiano ricordo del defunto con le parole spontanee e affettuose di chi desidera ricordare e dire il suo A-Dio a una persona amata? Perché le testate di tutto il mondo – l’8 aprile 2005 – mettevano in prima pagina la foto dell’Evangelario che un vento, quasi divino, sfogliava sulla nuda bara di legno di Giovanni Paolo II adagiata a terra, senza sapere che il segno dello stare sulla nuda terra, della luce pasquale del cero, dell’Evangelario posato sul feretro, non sono un esclusivo e austero rituale pontificio ma il rito proprio di ogni battezzato? Perché accontentarsi del rumore – senza pietà – dello scavatore presso la fossa di sepoltura e non evangelizzare l’austero gesto di calare la bara nella terra con la Professione di fede nella risurrezione della carne [dei morti] (cfr. Rito delle Esequie n. 97, p. 118-121) anziché replicare un’altra preghiera dei fedeli in cimitero? Perché omettere l’accompagnamento alla cremazione (cfr. Rito delle Esequie n. 178-179, p. 219-227), optando per una sorta di “vuoto rituale”, anziché cogliere l’occasione per assumere, purificare ed evangelizzare la scelta sempre più diffusa della cremazione? Perché omettere di accompagnare – fin dalla prima notizia della morte – il dovere cristiano di seppellire le ceneri (cfr. Rito delle Esequie n. 189-190, p. 239-246), raccogliendo la sfida di illuminare e discernere questo complesso passaggio esistenziale, aiutando a comprendere che disperderle o custodirle in casa può sottendere un atteggiamento che si pone contro la fede della Chiesa nella risurrezione della carne?…

Celebrare i riti della morte, alla luce della fede cristiana, è come prendere tra le braccia i nostri morti, presentandoli alla misericordia di Dio con la stessa pietà materna della Vergine Maria che Michelangelo ci ha donato, seduta come sul trono di una Regina il cui scettro è l’Agnello immolato e glorioso.

don Gianandrea Di Donna, Ufficio diocesano per la Liturgia