Migrazioni, profezia e sfida per la Chiesa

Lettera diocesana_Sinodale_2023/02

La Chiesa nasce dalla Pentecoste. Da subito disvela la sua identità universale, quando a Gerusalemme si trovano persone provenienti da ogni nazione (Atti 2,5) radunati attorno agli apostoli, che parlano loro delle “grandi opere di Dio” in un linguaggio a loro comprensibile, suscitando stupore e meraviglia (Atti 2,11). È la comunità ecclesiale che va incontro, accoglie, si allarga, estende i suoi confini, non si ferma alle ristrettezze delle appartenenze. Quando lo Spirito Santo soffia forte, come nel luogo chiuso in cui i discepoli di Cristo si trovavano, allora le porte di aprono e la Chiesa nasce, rinasce, riscopre il suo vero volto.

Vale per tante realtà in cui la diversità sembra costituire un confine insuperabile; vale per i migranti, diversi per lingue e culture, che rappresentano l’avamposto per coloro a cui la Chiesa non è straniera, perché in lei nessuno è straniero (Ad gentes, 8; Erga migrantes caritas Christi, 89).

Profezia
Le migrazioni sono la profezia di una Chiesa “famiglia di popoli”, segno visibile della possibilità dell’unità nella diversità. «Segno visibile e richiamo efficace di quell’universalismo che è elemento costitutivo della Chiesa cattolica» (Erga migrantes caritas Christi, 17) I migranti «sono un invito alla Chiesa a realizzare la propria identità e la propria vocazione» (Chiesa e mobilità umana, 28).

Alle migrazioni la Chiesa guarda con simpatia e favore, perché vi scorge l’immagine di se stessa, popolo peregrinante. I popoli in movimento sono il richiamo visibile dell’identità invisibile dei cristiani, “stranieri e pellegrini”, secondo l’indicazione della Prima lettera di Pietro (1 Pt, 2,11), più largamente sviluppata nella Lettera a Diogneto, per cui «i cristiani abitano una loro patria, ma come forestieri. Ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera».

Per questo sono un “segno dei tempi”, un “kairòs”, un “appello dello Spirito” (Erga migrantes caritas Christi, 14). Un appello all’ospitalità, all’accoglienza, al rispetto per la pari dignità di tutti gli esseri umani, fino al fatto decisivo in cui Gesù stesso si identifica con lo straniero: «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25,35).

Sfida, provocazione
La realtà spesso parla con un linguaggio diverso e lontano dall’ideale. Quelli che impropriamente sono ancora chiamati “stranieri”, “extracomunitari”, “clandestini”, sono da molti considerati un peso, guardati con pregiudizio, sospetto. Rappresentano un pericolo e una minaccia, oggetto d’intolleranza e razzismo.

Per questo «la presenza di questi fratelli è una sfida per le comunità ecclesiali, stimolandole all’accoglienza, al dialogo, al servizio, alla condivisione, alla testimonianza e all’annuncio» (Redemptoris missio, 82).

«Quando uno straniero si stabilirà nella vostra terra, non opprimetelo; al contrario, trattandolo come se fosse uno dei vostri connazionali, dovete amarlo come voi stessi. Ricordatevi che anche voi siete stati stranieri in Egitto: Io sono il Signore vostro Dio» (Lev.19,33).

È una provocazione e un ritorno alla memoria per gli italiani, popolo di migranti, ancor oggi con cinque milioni di connazionali risiedenti all’estero.

don Gianromano Gnesotto, direttore Ufficio diocesano di Pastorale delle Migrazioni – Migrantes