“Fermate” che trasformano

Lettera diocesana 2021/03

Il frutto del silenzio è la preghiera.
Il frutto della preghiera è la fede.
Il frutto della fede è l’amore.
Il frutto dell’amore è il servizio.
Il frutto del servizio è la pace.

(Madre Teresa di Calcutta)

Oggi le nostre vite sono spesso concentrate sul “fare”. Siamo molto attivi e pronti a dedicarci a impegni e progetti di vario genere, professionali, familiari, personali, scolastici, sportivi… Abbiamo notevoli risorse e opportunità e ci sembra di doverle cogliere tutte: “ogni occasione lasciata è persa”; e spesso ci illudiamo che la pienezza di vita sia cogliere più esperienze possibili.

Per noi che scriviamo, per molto tempo anche il vivere la carità si è espresso attraverso il “fare”: accogliere, dare, parlare, consolare, portare, animare, organizzare incontri e attività…

Poi ci è capitato di essere costretti a fermarci e tutto questo “fare” è stato interrotto: molti possono aver provato quest’esperienza a causa della pandemia, ma bastano eventi più comuni come una malattia, un licenziamento, una separazione, per stravolgere la vita. A volte capita semplicemente di non trovare più risorse dentro di sé, ci si sente spenti, senza meta e senza speranza.

Improvvisamente le attività spariscono, si vive in un’immobilità non voluta e di cui non si conosce il termine.

Quale sia la causa, quando siamo costretti a fermarci, siamo obbligati a una verifica. Abbiamo il tempo per guardare le nostre attività e priorità. È difficile pensare andando in profondità, domandarsi cosa è davvero essenziale. Spesso le cose da fare ci tengono lontani dall’ascoltare, dal pensare, dall’approfondire e può far paura quello che ci attende nella profondità di noi stessi. Ma, forse, solo così si può incontrare nella nostra parte più intima, nella stanza superiore, la Verità, il Signore.

Come per molti, a noi è capitato di vivere questa situazione di stallo in famiglia, insieme ai nostri figli. All’inizio ci sembrava esserci solo vuoto poi, quando questo blocco forzato si è prolungato, a volte avevamo l’impressione di soffocare, la frustrazione cresceva, volevamo scappare, ma non era possibile. Era difficile sopportarsi, vivere a così stretto contatto senza infastidirsi a vicenda… E in questa fatica quotidiana, abbiamo sperimentato forme di amore per noi nuove. Abbiamo provato il silenzio, il cercare di frenare la lingua come arma, il rinunciare a usare l’intelligenza per cogliere le fragilità di chi ci è vicino e attaccarle. Nel silenzio abbiamo sperimentato l’ascolto e l’attesa vigile, di chi nell’immobilità osserva l’altro, lo scruta e, guardandolo, ne vede i limiti: non è facile accoglierlo ma, continuando a osservare e ascoltare, senza agire, ci si scopre insieme creature simili, ognuno con le proprie difficoltà e miserie. Ascoltando e attendendo abbiamo vissuto la pazienza: in un mondo in cui siamo abituati a considerare la velocità di reazione e l’attacco come doti da coltivare e a dover sempre avere l’ultima parola, tagliente, sull’altro, lo stare insieme nel silenzio e nell’attesa pacifica si sono trasformati dal sopportare al supportare l’altro, dal vincere al camminare insieme. L’unico fare era l’esserci, lo stare accanto, vivendo con l’altro le sue sofferenze e frustrazioni, rinunciando a rovesciargli addosso la nostra rabbia e disapprovazione per i suoi errori o incapacità e riconoscendo, con umiltà, che non siamo così potenti o perfetti da poter essere noi i salvatori. E così, un passo alla volta, siamo arrivati a vivere anche il perdono che, talvolta, è l’unica via per amarsi.

Qualcosa di simile lo viviamo in parrocchia dove, come in famiglia, si cerca un luogo accogliente, in cui sperimentare l’amore fraterno del Vangelo, ma che spesso diventa una realtà in cui il fare prende il sopravvento. Come in famiglia, anche in parrocchia a volte viviamo relazioni diverse da quelle che ci aspettavamo: l’altro è per definizione altro da quello che immaginiamo, che vorremmo noi, che abbiamo idealizzato. In parrocchia ci troviamo con tanti “altri”, che non abbiamo scelto, aggregati da un ideale comune, spesso concretizzato in un fare. Anche qui, per vivere davvero l’amore sono centrali il silenzio, l’ascolto, l’attesa, la pazienza e il perdono. Ci vuole silenzio per ascoltare l’altro, attesa per lasciargli spazio affinché possa raccontarsi, farsi conoscere; è necessario ascoltarlo con la pazienza che richiede la lenta scoperta, accoglierlo già disposti al perdono, alla capacità di accettarlo per ciò che è, sapendo che non potrà andarci tutto bene.

In parrocchia non si vive insieme, ma può essere un luogo familiare, formato da consacrati o laici, ma tutti fratelli in Cristo, che si sforzano di coltivare l’accoglienza dell’altro senza essere sopraffatti dal fare. Non solo le parrocchie possono essere luogo di accoglienza per le famiglie, ma anche le famiglie possono essere luogo di accoglienza e ascolto per i religiosi, cui dare ristoro e accoglienza, guardando tutti insieme il Volto del Signore.

Ci viene in mente l’immagine di Betania. Il Signore Gesù trova una casa che lo accoglie, una famiglia. Può riposare alla presenza di persone care, a cui dona la vita e che riconoscono in lui il Salvatore, fratello di cui prendersi cura e da amare. E risuona il richiamo di stare ai suoi piedi in silenzio, ad ascoltarlo, sospendendo il nostro fare, per accoglierlo fino in fondo.

Valentina Menegatti e Federico Vignaga,
avvocato e psichiatra, collaborano con Caritas diocesana