Amen

Lettera diocesana 2017/06

«Dal suo letto tutto bianco, sentendo la morte,
Wojtyla spossato e smagrito si era voltato verso la finestra,
quasi intuendo l’immenso abbraccio della folla che saliva dalla piazza sottostante.
«È morto guardando la finestra, raccolto in preghiera»,
ha raccontato il sacerdote polacco Jarek Cielecki.
A un certo punto ha come alzato la mano destra
e ha accennato un gesto di benedizione indirizzato ai fedeli,
che in piazza San Pietro recitavano il rosario.
«Terminata la preghiera dei fedeli – ha spiegato Cielecki –
il Papa ha fatto un grandissimo sforzo e ha pronunciato la parola “Amen”.
Un istante dopo è morto».
(Marco Politi – La Repubblica 3 aprile 2005).

L’avverbio ebraico ámén significa certamente, in verità mentre il verbo ámán si potrebbe tradurre sia con educare ma anche con esser certo, sicuro, esser veritiero, vero e in alcune forme del verbo anche con credere. Amen ha a che fare etimologicamente con la fede stessa (emunah in ebraico). Il sostantivo derivato emet indica ciò che è stabile e fermo, si potrebbe dire in senso traslato ciò che è verità. È nota l’espressione di Gesù – usata di frequente nei Vangeli – Amen, amen, dico a voi, che si può ben tradurre: in verità, in verità io vi dico…

La liturgia cristiana ha fatto propria questa espressione e adesione di fede in Dio, roccia sicura su cui con il nostro libero assenso (amen, appunto!) siamo fondati. Come in altri casi (Osanna, Alleluja, Kyrie, eleison…), la fase giudaico-cristiana delle origini del cristianesimo ha preferito non tradurre queste secolari espressioni che giungono fino a noi, e sono la lingua materna della nostra fede.

Nessuno di noi dimentica quando tenendoci la mano destra nostra nonna o nostra mamma ci accompagnava nel tracciare, dalla fronte al petto e dalla spalla sinistra a quella destra, il signum crucis e noi – bambini – un po’ smarriti nel fare quel segno della croce così, per un bimbo, difficile – ci posavamo sicuri, con le mani giunte, su quell’amen finale, che tanto ci riempieva di “santo orgoglio” e di sicurezza.

Ora quell’amen accompagna tutti i segni di croce di croce della vita, tutte le preghiere cristiane, e risuona una, due, cento volte; ogniqualvolta celebriamo i divini misteri, la liturgia cristiana. Nel rito orientale bizantino della celebrazione dell’Eucaristia – secondo la cosiddetta Liturgia di San Giovanni Crisostomo – mentre il vescovo o il presbitero sta cantando la preghiera eucaristica, il coro e l’assemblea, così “reagiscono” alle parole del celebrante:

«Prese il pane nelle sue mani sante, innocenti, immacolate, e, dopo aver rese grazie, lo benedisse lo santificò, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli e Apostoli, dicendo: Prendete, mangiate: questo è il mio corpo, che per voi viene spezzato in remissione dei peccati.

L’assemblea: Amen.

Similmente anche il calice, dopo che ebbe cenato, dicendo: Bevetene tutti: questo è il mio sangue, del Nuovo Testamento, che viene sparso per voi e per molti in remissione dei peccati.

L’assemblea: Amen.

Era assai simile anche nella preghiera eucaristica dell’antica tradizione romana.

L’Amen risuona nella celebrazione della liturgia come il nostro a Dio, il di chi ascolta e crede; di chi nell’abbandono filiale, professa l’adesione obbediente a Cristo e al suo Vangelo.

La liturgia è il “luogo” – Dio stesso se ne fa garante – nel quale Dio insatura con noi una relazione che potremmo dire verticale, o – per dirla con l’evangelista Giovanni – dall’alto. Una relazione che, pur mediata dalla fede e dai santi segni del rito cristiano, non asseconda un vago senso religioso, ma chiede adesione, abbandono filiale, chiede di uscire da sé, chiede di obbedire: come con Abramo, Isacco e Giacobbe, come con Mosè e i profeti, come con i Re d’Israele, con gli Apostoli e con Maria, la Madre di Dio, anche con ogni uomo Dio chiede di essere ascoltato: «Ascoltate oggi la mia voce, non indurite il vostro cuore». Chiede l’Amen di un’alleanza, nuova ed eterna; celebra con noi l’alleanza siglata dal suo sangue versato sulla Croce.

Non c’è luogo più autentico nel quale noi, uomini e donne, possiamo incontrare la potenza di Cristo, il Vivente. Bambini, ragazzi, giovani e adulti, se educati allo spirito autentico della Liturgia, possono intuire che in essa il cristiano non va ad ascoltare delle riflessioni, o semplicemente “ci si” raduna… È Dio che ci convoca, che ci raccoglie, è Dio che ci dona la sua vita divina, è Dio che ci chiama! La vocazione non è il desiderio di “fare qualcosa per gli altri…”, non è la “disponibilità di mettersi a servizio di…”: Colui che vocat (chiama), entra nella vita di noi irrompendo vigoroso, come un torrente infido dalle acque incostanti direbbe Geremia (15,18); chiama e chiede un primato, una sequela radicale e autentica che spinge a vendere ogni cosa per acquistare una perla preziosissima (Mt 13,46).

Nella liturgia questa celebrazione del primato ci conduce a celebrare un’alleanza, a cantare il nostro amen, la nostra adesione totale. Nella liturgia – l’esperienza secolare della Chiesa lo insegna – è possibile udire, in modo del tutto singolare, la chiamata personale e radicale di Cristo a farsi discepoli del suo Regno.

Molte vocazioni, non possiamo dimenticarlo, sono nate proprio ai piedi dell’altare, dove con tutta la Chiesa si innalza il canto del nostro Amen.

don Gianandrea Di Donna, Ufficio per la Liturgia