Perché il tema delle migrazioni è così divisivo fra i credenti?

Lettera diocesana_Sguardi_2021/07

Ho dedicato alle migrazioni oltre trent’anni di studi, ricerche, libri, insegnamento, attivismo politico e animazione sociale. Eppure non ho ancora una risposta alla domanda che mi è stata posta, e che trovate nel titolo. O ne ho molte, ma tutte parziali.

La prima è che non esiste più alcuna omogeneità di pensiero sociale, a maggior ragione politico, tra i cattolici. Inevitabile quindi, normale, e anzi benefico che ci siano posizioni diverse: non solo tra i credenti, del resto. In una società culturalmente plurale, secolarizzata e frammentata, le divisioni non separano più le identità, ma le attraversano.

Le migrazioni sono una questione di dibattito più calda di altre, fortemente mediatizzata e politicamente strumentalizzata, e quindi maggiormente divisiva. Per questo motivo cerco di non fare ricorso solo a valori, ideali, riferimenti scritturali o di magistero, per parlarne. Non perché non siano importanti: lo sono eccome. Ma perché, quando vengono proposti come tali nello spazio pubblico, convincono solo i già convinti. Non sarà un documento della Santa Sede, un’esortazione del papa, un’omelia domenicale sui princìpi, a convincere nessuno: quelle sono occasione preziosissime per ribadire e approfondire, per rassicurare e motivare più saldamente i già convinti e i già impegnati. Agli altri, anche dei nostri (supposto che l’espressione abbia un senso: le identità e le appartenenze sono anch’esse plurali, intermittenti, reversibili – nessuno è mai cattolico e basta), nelle parrocchie e nell’associazionismo, non bastano le parole d’ordine o le esortazioni (“Ama il prossimo tuo…”), dobbiamo spiegare cosa succede, ed è più complicato. O far leva sugli interessi, parola nobile ancorché svilita (deriva da inter-esse, “essere fra”: ciò che costituisce il legame sociale) – cosa che pochi sanno fare. O ancora, far sperimentare sentimenti, incarnando e incrociando esperienze vissute: il resto rischia di essere vuota e inefficace retorica.

Bisogna uscire dalla contrapposizione un po’ da tifo calcistico tra buonisti e cattivisti: entrambi presunti, dato che i primi non sono necessariamente buoni, e i secondi non così cattivi. E non è contrapponendo un omicidio perpetrato da o su un migrante, che si migliora il livello etico della società.

Penso che dobbiamo vivere e raccontare esperienze, e inanellare ragionamenti pacati, senza spirito giudicante. Anche perché di errori ne hanno fatti tutti, anche coloro che si autocollocano nel campo dei buoni (“chi è senza peccato…”). Da molti anni, per spiegarlo, equiparo l’immigrazione a un matrimonio: funziona solo se lo vogliono entrambi i contraenti. E da sempre penso che dovremmo spendere metà delle nostre risorse, tempo, denaro, intelligenza, ad aiutare gli immigrati a inserirsi, e l’altra metà a spiegare agli autoctoni cosa sta succedendo, perché e quali ne sono i vantaggi. L’ascolto delle posizioni altrui – ecco, quello sì – aiuterebbe a rendere la questione meno divisiva. Si faccia un esame di coscienza chiunque di noi, e qualunque associazione, rispetto all’impegno investito in questo sforzo: anche se ci sono molte giustificazioni (l’urgenza, l’emergenza – ma ormai sono quarant’anni che ci sono le immigrazioni…).

Personalmente (e non sono il solo) ci sto provando costruendo una diversa narrazione, più “larga” e comprensiva[1]. Raccontando la storia e l’attualità della mobilità umana (di cui le migrazioni nelle varie direzioni sono solo una parte, e correlata con altre: turismo, affari, studio, curiosità…). Esplicitando cos’hanno in comune emigrazione e immigrazione, e cosa le lega (il che ci aiuterebbe a capire che è normale che la Germania sia contemporaneamente il primo paese europeo per immigrazione e pure il primo per emigrazione, cosa meno nota). Mostrando i legami con la nostra demografia: in questo momento il rapporto tra lavoratori è pensionati è 3 a 2, nel 2040 sarà 1 a 1, e nessuna pur necessaria politica a favore delle famiglie potrà mai riempire quel buco. Spiegando che gli emigranti sono più degli immigrati, e non c’è quindi nessuna invasione in corso. Che tutelando i diritti degli immigrati (ad esempio a un giusto salario) tuteliamo anche i nostri. Dettagliando che gli stranieri sono indispensabili in molti lavori (badanti e colf; bracciantato ma anche ruoli specializzati in agricoltura – impensabile oggi non sono la raccolta del pomodoro, ma la produzione del parmigiano e degli insaccati, senza di loro; manovalanza in edilizia; operai nell’industria; magazzinaggio nell’industria e la logistica; pulizie negli alberghi, negli uffici, nelle case; ristorazione e alberghiero); e non portano via il lavoro a nessuno: al contrario, lo creano (l’80% degli stranieri è operaio – non sarebbero sostituiti dall’80% di persone che entrano nel mercato del lavoro, che sono almeno diplomate, aspirano ad altri mestieri, e nel caso preferiscono l’emigrazione; mentre la presenza nel settore pubblico è dello 0,01%). Mostrando che innalzando muri ci ritroviamo chiusi dentro, e non possiamo più uscire se li innalzano altri. La convivenza aiuta a far capire il resto: il 15% di matrimoni misti mostra quanto, oltre alla fetta di società che non capisce e rifiuta la diversità, ce n’è ormai un’altra a cui piace così tanto che se la sposa. Le dinamiche che coinvolgono le scuole e le nuove generazioni (e i luoghi di integrazione, dallo sport agli oratori) ci mostrano un nuovo mondo.

Forse solo così, coniugando valori e ragione, interessi ed esperienze, potremo rendere l’immigrazione meno divisiva: o almeno passare più tempo a risolvere problemi che non a innescare conflitti. Scoprendo che le soluzioni sono spesso più semplici di quel che crediamo. E fare lo sforzo di proporle e di discuterle, ascoltando le posizioni diverse, è già un primo passo.

Stefano Allievi, sociologo

[1] Un esempio in Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento, UTET, 2021.