La dimensione affettiva e la formazione in Seminario nella società dell’identità di genere

Lettera diocesana 2024/07

Il tema della formazione affettiva dei giovani che sentono la chiamata al ministero ordinato è sempre stato al centro dell’attenzione della Chiesa anche se con sfumature diverse a seconda del contesto storico e culturale nella quale ci si colloca. Guardando all’oggi due mi sembrano le questioni che dobbiamo aver presente nella proposta formativa.
La prima è legata ai processi di strutturazione e formazione dell’identità che attraversano e accompagnano le varie fasi della vita e la seconda è legata alla capacità relazionale che è richiesta al presbitero.

Circa la prima questione il problema è abbastanza complesso e ricco di intrecci. Rispondere alla domanda: “chi sono?” è un compito importante e non più scontato come poteva essere in passato. L’identità è un costrutto teorico che corrisponde a un’esperienza che è quella del proprio essere nel tempo che da una parte dice continuità, “sono sempre io sia a 5 che a 20 che a 40 anni…” e dall’altra dice novità “sono sempre nuovo, distinto e originale grazie alle varie esperienze di vita”. La ricerca della propria identità è allora un processo in divenire che attraversa tutta la vita e che si potrebbe tradurre come una domanda aperta che il soggetto pone a se stesso, alla società e agli altri. Uno degli aspetti coinvolti in questo processo è l’identità di genere, ossia il cammino di costruzione di sé in quanto persona sessuata la cui risposta non può essere data semplicemente a partire dal dato genetico e/o fisico della persona ma deve tener conto anche delle istanze socio-culturali[1].

Semplificando potremo dire che parlare di identità sessuale coinvolge quattro dimensioni: a quale genere sento di appartenere, l’orientamento sessuale, cioè da chi sono attratto, e poi il ruolo e le espressioni di genere, cioè quello che è il lato più sociale della mia identità di genere, quindi il fatto che aderisca o meno a quello che secondo la cultura di quel determinato periodo storico è ascrivibile al maschile o al femminile, a entrambi o nessuno dei due. Oggi tutto questo processo è particolarmente complesso e quanto mai incerto, perché queste dimensioni che tendiamo a vedere in modo unitario possono avere processi di sviluppo indipendente.

Dentro a questa grande cornice di riferimento due sono gli aspetti che meritano attenzione educativa e che nel passato sono stati trascurati: il rapporto con il corpo che non può essere derubricato in modo semplicistico e superficiale e il rapporto con il mondo dei social e della rete come mondo abitato e vissuto con implicazioni continue nella nostra vita “cosiddetta reale”.

Con questa domanda/ricerca molti si avvicinano a un percorso di discernimento vocazionale dove non solo ideali ma anche paure, immaturità, aspettative e pregiudizi possono bloccare e/o rallentare il cammino di risposta al Signore. Potrebbe così sembrare maturo e spiritualmente motivato quello che in realtà è un blocco o una fuga dalla realtà più profonda ed esigente della chiamata celibataria che ha nella logica del Regno il suo orizzonte ultimo e nella capacità di dono libero e gratuito il suo presupposto di maturità umana richiesta.

E qui veniamo al secondo aspetto ossia la capacità relazionale che oggi è richiesta a al ministro ordinato (e non solo a lui!) e che assume molteplici sfumature nella capacità di costruire comunione, sinodalità, ascolto e gestione delle diverse conflittualità. Essere prete celibe vuol dire saper vivere continuamente il desiderio di tessere nuove relazioni nella storia che coinvolgano tanto le persone come il creato. Esplicitando ulteriormente dovremo parlare di una persona che si impegna continuamente a costruire relazioni non superficiali a tutti i livelli della vita quotidiana e della società.

La conformazione a Cristo non è allora l’assunzione di un ruolo “religioso”, o l’essere capace di fare certe cose che possono diventare espressione di un narcisismo autoreferenziale, ma la capacità di una profonda incarnazione nella propria storia e nel proprio tempo, portandovi la forza rinnovatrice e trasformante del Vangelo.

don Andrea Peruffo, presbitero e psicologo

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[1] L’anatomia e/o la genetica non è un destino anche se non possiamo non pensare che il corpo e quello che facciamo siano ininfluenti rispetto al risultato finale cioè rispetto alla mia identità.