«Una delle grandi funzioni dello studio è la consapevolezza che non percepiamo mai il mondo com’è. Lo vediamo unicamente attraverso una o più interpretazioni. Il mondo è detto attraverso le peculiarità fonetiche e grammaticali di ciascuna lingua (…) Ogni lingua e ogni scrittura sono altrettante maniere di dargli un significato.
Per questo leggere la Bibbia in ebraico apre sentieri imprevisti, di una ricchezza straordinaria, di una novità impensata».
M. A. Ouaknin, Le dieci parole
Da alcuni anni, grazie a insegnanti che sono stati per me guide esperte e capaci di suscitare passione ed entusiasmo per il cammino, anch’io mi sono potuta avventurare per quei sentieri imprevisti, straordinariamente ricchi e sempre nuovi, di cui parla il rabbino e filosofo francese Marc Alain Ouaknin.
Nella giovinezza – era la fine degli anni Settanta – , grazie alla partecipazione ai gruppi biblici guidati da don Cristiano Bortoli al Centro universitario di Padova, ho sperimentato la bellezza dello studio dell’Antico Testamento e la profondità di senso che ne deriva, un senso mai rigidamente univoco e chiuso, ma carico di infinite sfumature e possibilità interpretative, capaci di illuminare la vita nella sua quotidiana concretezza.
Ma sono giunta alla lingua ebraica per altre strade, legate all’interesse sorto successivamente in me per la cultura del popolo ebraico, popolo che nel corso della storia, la follia del fanatismo e dell’intolleranza non ha cessato di perseguitare, fino a giungere a progettarne l’annientamento. La forza delle testimonianze letterarie di autori sopravvissuti alla Shoah, gli straordinari romanzi degli scrittori israeliani contemporanei, la struggente bellezza delle musiche delle diverse tradizioni ebraiche mi hanno spinta a bussare alla porta della Comunità ebraica di Padova per frequentare i corsi di ebraico moderno. Grazie a insegnanti accoglienti, pazienti ed efficaci, ho cominciato a leggere e capire le prime parole, a individuare le fondamentali strutture grammaticali, sperimentando via via un universo di pensiero e un punto di vista sull’esperienza della vita nuovo e diverso, sorgente di meraviglia, eppure al contempo non estraneo, ma quasi atteso e familiare, forse proprio per la radice antica, biblica, della lingua.
Il desiderio di accostare la Bibbia nella lingua originale e di comprendere la differenza dell’ebraico moderno da quello biblico mi hanno portato alla comunità monastica di Bose, dove ho frequentato i corsi di ebraico biblico di Sabino Chialà e Raffaela D’Este. Ora, grazie alle iniziative dell’associazione Bibbia Aperta, ho la meravigliosa opportunità di condividere la lettura dell’Antico Testamento in ebraico con un gruppo di amici molto esperti, che da anni si incontrano periodicamente e affrontano il testo approfondendone gli aspetti grammaticali, lessicali e interpretativi.
È un’opportunità che considero benedizione: la lingua ebraica schiude alla mia mente una tale potenza evocativa, una tale ricchezza di significati da consentirmi di tenere ben lontana la pretesa di aver capito, di sapere cosa la Bibbia dice o non dice.
Ogni parola di questa lingua così antica rimanda a un’origine assai concreta e apre alle infinite possibilità di significato racchiuse nella potenza metaforica in essa implicata. Gli esempi possono essere moltissimi, mi limito qui a citare quello che è forse il più famoso, il termine rachamim, che traduciamo con misericordia, la cui radice originariamente indica il grembo materno, a suggerire che la misericordia di Dio per le sue creature è come l’amore della madre per il bimbo che porta in grembo.
Dal punto di vista sintattico la lingua ebraica non cessa di stupirmi per la sua essenzialità: più la frase risulta scarna, priva di qualsiasi elemento non strettamente necessario, più scaturisce da essa una forza in grado di colpire la mente e il cuore del lettore, spingendolo a riflettere a a interrogarsi.
Attraverso il cammino di ricerca spirituale in seno alla Chiesa, grazie alle figure luminose che mi è stato dato di incontrare, non sono giunta a orizzonti chiusi e mete definite e, anche nella figura di Gesù, ho potuto apprezzare quell’atteggiamento, proprio di tutta la cultura ebraica, che evita risposte definitive, ma al domandare risponde con nuove domande, affinché l’interlocutore abbia modo di scendere in profondità, di riflettere e rifuggire da giudizi affrettati, tanto più superficiali quanto più carichi di presunta verità.
Gesù leggeva la Torà in ebraico, pregava in ebraico, pensava secondo le categorie della lingua ebraica e secondo tali categorie offriva i suoi insegnamenti; anche la lettura dei Vangeli nella lingua greca in cui furono scritti, consente di scorgere, dietro il particolare fraseggio, l’eco della struttura della lingua ebraica. Porto come esempio il saluto dell’angelo a Maria nell’evangelo di Luca, notissimo perché ripreso nella preghiera dell’Ave Maria: è evidente nell’originale greco (come nell’Ave Maria in latino), l’assenza del verbo essere sia in funzione copulativa che predicativa. Si tratta di una caratteristica tipica dell’ebraico, che omette nella maggioranza dei casi il verbo essere (letteralmente il testo dice: «Rallegrati piena di grazia, il Signore con te, benedetta tu fra le donne»).
Nel rispetto per la potenza, per la misteriosa energia, per la sacralità di questa lingua – la lingua della creazione, la lingua capace di esprimere il sofferto rapporto d’amore tra un popolo e il suo Dio, la lingua dei Salmi, la lingua che non sfugge alle domande più profonde dell’uomo e al suo grido, a volte disperato, di aiuto, la lingua del maestro buono Gesù – si radica a mio avviso il carattere necessario, ineludibile del dialogo fra cristiani ed ebrei.
E avere la fortuna di poter accostare l’ebraico biblico consente di comprendere, di sperimentare quasi, la dimensione di profonda e originaria condivisione di parole, pensieri, speranze che è fondamento e promessa di fecondità per il dialogo stesso.
Alessandra Organte, appassionata cultrice della lingua ebraica