Tre amici, Ottavio, avvocato cristiano, Cecilio, intellettuale pagano e Minucio anch’egli avvocato e convertito al cristianesimo, autore di un loro acceso dialogo apologetico (l’Octavius, scritto attorno al 197 d.C., passeggiano lungo il lido di Ostia; Ottavio rimprovera Cecilio per un bacio dato alla statua del dio Serapide. Ne nasce una discussione in cui Cecilio attacca il cristianesimo ed esalta la religione tradizionale politeista, mentre Ottavio contesta i culti idolatrici pagani esaltando il primato dell’amore cristiano. Alla fine del dialogo Cecilio si dichiara vinto e si converte al Cristianesimo, mentre Minucio, arbitro tra i due, assegna la vittoria a Ottavio. Tra le false accuse[1] che il pagano Cecilio muove ai cristiani, quella di venerare la testa d’asino (allusione all’ingresso di Gesù a Gerusalemme), di praticare l’infanticidio e l’antropofagia (allusione alla trasformazione del pane e del vino nell’Eucaristia), di essere incestuosi (allusione allo scambio del bacio di pace tra fedeli che si considerano fratelli e sorelle, sempre nell’Eucaristia), di rifiutare l’uso della cremazione, dell’essere sostanzialmente atei cioè lontani dai costumi dei padri…
Il capitolo IX dell’Octavius è forse una delle più antiche testimonianze – potremmo dire indirette – del rito cristiano dello scambio di pace (l’osculum pacis, il bacio di pace) durante l’Eucaristia, polemicamente frainteso, in ambito romano, con una pratica incestuosa.
Di origine e ispirazione biblica (cfr. Rm 16,16), il segno di pace entra nella liturgia molto presto se Giustino, già nel II secolo, testimonia come «terminate le preci, ci salutiamo con il bacio» (Apologia I,65). è probabile che originariamente questo gesto fosse collocato prima della processione all’altare con i santi doni del pane e del vino (all’inizio dei riti offertoriali) – memori della raccomandazione di Gesù: «se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24) – come a cerniera tra la Liturgia della Parola e l’inizio dei riti eucaristici (dove ancor’oggi lo colloca il rito ispano-mozarabico e il rito ambrosiano). Sul finire del IV secolo, per intervento di papa Innocenzo I, il signum pacis fu portato a conclusione dell’Anafora dopo il Pater noster; mentre papa Gregorio Magno – alla fine del V secolo – preferì metterlo in relazione con la Comunione eucaristica. Nel Medioevo il gesto cadde in disuso, se si fa eccezione per le grandi solennità quando veniva scambiato tra i membri del clero e talvolta “inviato” ai fedeli con il portapace (l’instrumentum pacis), una specie di reliquiario o croce o immagine che “trasmetteva” la pace fuori dall’altare, verso i fedeli. Questo oggetto liturgico, pur avendo smarrito completamente il senso fraterno della pace, salvaguardava almeno l’idea che – in ragione delle immagini raffigurate sul portapace – i credenti ricevessero la pace come dono di Cristo, della Santissima Trinità, della Croce e della Risurrezione di Cristo…
Oggi la liturgia riserva, molto opportunamente, questo gesto all’Eucaristia, esprimendo con ciò il fatto che la pace sia un dono del Risorto: egli, apparendo la sera di quello stesso giorno (cfr. Gv 20,19), dona agli Undici la pace e lo Spirito Santo, vincendo il peccato e la morte: non c’è più abisso, separazione tra Dio e l’uomo; non c’è più rottura tra l’uomo e gli altri uomini, tra l’uomo e se stesso; il Divisore è stato rinchiuso negli inferi da colui che «è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (Ef 2,14-18).
La Chiesa, celebrando nell’Eucaristia la memoria vivente della Pasqua del Signore Gesù, canta infatti: «Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà». è la certezza che il Risorto offre alla Chiesa una pace che – come ricorda ancora oggi il testo liturgico del Messale Romano-Certosino – il mondo non può dare perché questa pace è una grazia che viene dall’alto: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). La pace che solo il Risorto può dare al mondo, agli uomini, alla Chiesa è una pace che non è a disposizione dell’uomo ma è effusa nel cuore dei credenti dal dono della grazia di Cristo risorto. Questa pace, dono dall’alto, viene dall’unità, cioè da quella comunione che Gesù Cristo vivo e risorto comunica alla sua Chiesa perché tutti i suoi membri siano – come lui, il Padre e lo Spirito Santo – una cosa sola.
Questa pace del Risorto non è riducibile alla semplice assenza di conflitti o a quanto l’uomo può fare per superare le tensioni e l’istintiva propensione alla violenza. Risulta perciò essenziale che l’espressione rituale di questo dono divino, sia capace di esprimere con tutta la forza del segno visibile quanto Cristo ha generato per grazia.
Oggi il signum pacis avviene tra i presbiteri con l’abbraccio e, solitamente, tra i fedeli con la “stretta di mano”… Appare talvolta una certa “ingenuità”, rispetto a questo rito, che alcuni tentativi affrettati o superficiali portano con sé, riducendo il segno visibile a ibride forme rituali: bislunghe monizioni diaconali (l’offerte vobis pacem) trasformate in messaggi per la Giornata mondiale della pace, canti per la pace infarciti di testi della più grande banalità, introduzioni al gesto di pace ispirate soltanto alla prospettiva “etico-sociale” della pace (intesa unicamente come opera dell’uomo), rumorosi atteggiamenti da “rompete le righe” (in cui tutti “devono scambiare la pace con tutti”) con lunghe passeggiate per l’altare di presbiteri, diaconi, laici, cantori, ministranti, accompagnate da affettuosi e chiassosi “colpi sulla spalla”… Non si tratta di opporsi alla verità di un gesto che deve essere carico di umanità e di verità; si tratta di non inflazionare, di non banalizzare, soprattutto di mostrare visibilmente che questo dono che viene dall’alto…
Una lettera circolare della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti (8 giugno 2017) dal titolo «L’espressione rituale del dono della pace», approvato dal Santo Padre Francesco, ha indicato quanto bisogno ci sia di ricuperare il senso autentico di questo dono della grazia del Risorto, anche rifacendosi alla sobrietà delle origini e alla forza di alcune scelte rituali. Ne richiamiamo il senso generale, rinviando al testo integrale allegato:
- pro opportunitate è bene evitare l’uso eccessivo e banalizzante del gesto che, pertanto, sarà scambiato nelle celebrazioni più opportune e significative, come la domenica, il Triduo o le più grandi solennità; si eviti pertanto di farlo nei giorni feriali;
- secondo una certa sobrietà e raccoglimento, sarà quanto mai sarà opportuno scambiare il segno della pace con le persone più vicine, evitando di allontanarsi dal proprio posto o dall’altare o di scendere in navata (nel caso dei presbiteri);
- si eviti di inserire canti sul tema della pace non previsti nel Rito romano e incapaci di esprimere il senso profondo del mistero di Cristo. Si cerchi di valutare meglio il senso della Fractio panis accompagnata dal canto dell’Agnus Dei… che toglie i peccati del mondo e perciò dona a noi la pace (dona nobis pacem)… quella che il mondo non può dare.
don Gianandrea Di Donna, Ufficio per la Liturgia
Allegato: Circolare Scambio della pace2
[1] «Ormai – visto che le realtà negative hanno uno sviluppo particolarmente rigoglioso – col diffondersi giorno dopo giorno dei costumi corrotti, i riti di questa empia congrega stanno crescendo in tutto il mondo. È un complotto che deve essere assolutamente smascherato e maledetto. Si riconoscono fra loro con contrassegni e segnali segreti e si amano vicendevolmente quasi prima di essersi conosciuti. Si costituiscono così fra loro, a macchia d’olio, dei legami fondati sulla libidine; si chiamano senza distinzione “fratelli” e “sorelle”, col risultato che gli amori illeciti, consueti fra loro, col mettersi “di mezzo di un nome sacro, diventano addirittura incesti. Così la loro superstizione vacua e folle si vanta del delitto. Su di loro, se non ci fosse un sostrato di verità, non circolerebbero dicerie tremende, diverse, acute e di cui ci si debba scusare prima di dirle» (Octavius dal capitolo VIII).