La Lettera dei giovani alla Chiesa di Padova, ascoltata in Cattedrale la vigilia di Pentecoste (19 maggio 2018), afferma con parole vibranti e ispirate:
«Abbiamo sete di Dio, anche quando questa sete non è inquadrata dentro percorsi, riti, momenti “tradizionali” che sentiamo spesso lontani e difficili da comprendere, come la Messa, a cui molti di noi non partecipano più. Anche quando non riusciamo a dare un’adesione convinta a Dio, siamo in cammino e vorremmo essere stimolati e aiutati nella nostra ricerca, con strumenti adeguati per la nostra crescita spirituale».
I giovani confessano una qual distanza dalla Liturgia e intravedono la causa di ciò nei percorsi, riti e momenti “tradizionali” che giudicano lontani e difficili da comprendere. Noi adulti, spesso difensori “degli argenti e dei merletti” o “dei tamburelli e delle danze all’altare”, avremmo subito una replica e una soluzione… Infatti su YouTube spunta “l’antica pianeta del ‘700” e subito il blog si affolla di “chiacchierate sul suntuosissimo damasco” anziché su Gesù Cristo o, dall’altra parte, il simpatico parroco mette in scena un reality show, dove la sua ingenua simpatia all’altare surroga il mysterion del sacrificio glorioso di Cristo, innalzato sulla Croce.
Eppure i giovani, confessando la loro sete di Dio, sembrano intuire come la Liturgia cristiana sia la fonte per dissetare quella sete: questo non perché mentre si celebra la mente venga appagata da “alcuni bei pensieri su Gesù”, ma perché Liturgia è anzitutto Opus Dei (come ama definirla la tradizione benedettina), opera di Dio e non trattazione dell’uomo riguardo a Dio.
«Giustamente perciò la Liturgia è ritenuta quell’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo mediante il quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale» (Sacrosanctum Concilium, Costituzione sulla Sacra Liturgia, nr. 7): la Liturgia è l’agire di [non parla di] Gesù Cristo morto, sepolto e risuscitato.
Se i giovani descrivono una crisi, questo è perché la Liturgia non funziona attraverso l’ideologia “del pizzo” o “del canto rap”, ma solo se l’atto rituale si fa umile sacramentum (mysterion, segno) che “rivela-comunica-conduce” all’incontro con il soggetto di tale azione: Gesù Cristo! Lo stallo pastorale dei riti cristiani – violentati da idolatri di antichi arredi (non sempre eleganti) o da narcisisti e banali conduttori di reality – riguarda la perdita del riconoscimento del soggetto dell’actio celebrativa (cfr. Lc 24,35).
I giovani della nostra Chiesa ritengono «che il Signore ci chieda di aprire un cantiere sulla Liturgia, che aiuti a comprendere più approfonditamente il senso dei gesti e dei riti e a renderli il più possibile significativi» (Lettera, III,1). Ora le preghiere e i gesti, i canti e le acclamazioni, le vesti e le icone, l’altare e l’ambone, i libri e gli strumenti musicali, i fiori e la disposizione dell’assemblea, il silenzio e la coralità, il corpo e le sue posizioni… non possono essere ridotte a forme espressive “da devoto collostorto”, a tecniche capaci di intercettare l’uomo contemporaneo blà, blà, blà…, a modelli ecclesiologici post, pre, in, con… non caratterizzano l’epidermide religiosa, la spontaneità giovanile o la ieratica aplomb cerimoniale, la semplicità infantile o il dogmatismo ipercattolico… essi possono essere solamente l’epifania dell’agire di Cristo. O non sono nulla!
La felice intuizione di un cantiere sulla Liturgia ci spinge a creare le condizioni pratiche perché ogni celebrazione cerchi, nell’azione rituale stessa, la sua vitale relazione con Cristo, il soggetto della Liturgia: le forme del rito – sempre originate entro la storia ecclesiale – non possono essere banalmente classificate come giovanili o popolari, conservatrici o progressiste, seriose o allegre… esse funzionano se permettono di “riconoscere-ricevere-amare” l’agire di Cristo. In ragione di ciò le nostre celebrazioni hanno bisogno di essere preparate «con cura e amore, perché possano essere momenti di incontro con il Signore e spazi di fraternità» (Lettera, III,2). E poiché «la bellezza del Vangelo passa attraverso delle liturgie sobrie ma non superficiali, profonde ma non pesanti, in cui essere parti attive e non solo spettatori» (Lettera, III,2), questo auspicato cantiere sulla Liturgia dovrà ri-abituarci a non aver paura della bellezza: la bellezza cristiana, ricca di nobile semplicità (cfr. Sacrosanctum Concilium, nr. 34), avulsa da sontuosità profane e rococò, e che non va mescolata alla sciatteria o al pauperismo rituale, premesse per uno sterile intellettualismo moraleggiante. Work in progress!
don Gianandrea Di Donna, Ufficio per la Liturgia