Nel dibattito sulle cure di fine vita, oltre alle indicazioni tecnologiche e terapeutiche, emerge sempre di più la vulnerabilità dell’essere umano e l’interrogativo di fronte alla sofferenza.
Per comprendere con uno sguardo allargato la nostra libertà in queste e in altre situazioni, va anzitutto decifrata la sofferenza, sospesa tra dolore fisico e disagio psicologico e spirituale. Anche quando la condizione diviene di inguaribilità, anche quando le vicende dell’esistenza personale e comunitaria sembrano senza vie d’uscita, rimane la possibilità di essere curabili, di adottare delle soluzioni legate al contesto in evoluzione. Perché ciò si verifichi è fondamentale unire alle procedure standardizzate degli interventi, inevitabili in un mondo complesso e foriero di regolamentazioni, la prossimità e l’attenzione specifica alla situazione. Paradossalmente le procedure omologanti possono diventare la prima tappa di una cultura dello scarto, rispetto a un’elaborazione di luoghi di cura e di reti sociali, ecclesiali e civili di prossimità. Un’autentica cultura della cura non evita di confrontarsi con le procedure standard, ma le vivifica con lo spirito della prossimità. Tutti i luoghi professionali, civili, ecclesiali sono così chiamati, nei diversi ambiti di vita e di impegno, a divenire luoghi di cura e di prossimità, non solo di sviluppo di tecniche e pratiche professionali, politiche, pastorali.
La libertà del singolo in questo scenario è anch’essa oggetto di decifrazione. Spesso si confonde ormai l’autonomia e ancor più l’autodeterminazione con la libertà. Saremmo cioè di fronte all’esaltazione di una libertà del singolo slegata dal contesto e che ha come unico soggetto l’individuo. Come dimostrato dalla pandemia e come già ricordato da papa Francesco in Laudato si’ n. 117, “tutto è connesso” e tutti siamo connessi, in una comunità di destino che comprende anche gli altri esseri viventi e che non può vederci attori isolati. La libertà, dunque, rimanendo atto del soggetto educato a prendere decisioni consapevoli e coscienti, si trova sempre di più a confrontarsi con il contesto di riferimento, con le conseguenze a breve e lungo termine delle azioni, con le ricadute sociali delle proprie scelte. Attraverso questo sguardo allargato, la libertà dell’altro non sarà la negazione della mia, ma un tentativo solidale di interpretare il mistero dell’esistenza, in un comune cammino di essere umani.
Leopoldo Sandonà,
bioeticista e ricercatore Fondazione Lanza – docente FTTR e direttore ISSR di Vicenza