Su quali basi formare le nostre comunità cristiane? Quali coordinate proporre affinché siano realmente evangeliche? Quali pensieri sostenere perché pongano comportamenti in sintonia con il Vangelo e quali, invece, stigmatizzare perché addirittura opposti a esso? Tra le opinioni sui cattolici impressiona il parere di Michele Serra apparso su La Repubblica del 9 luglio scorso: «per l’evidente maggioranza dei cattolici italiani la religione è soprattutto un omaggio alle tradizioni; un’abitudine sociale; un comfort; una difesa prêt-à-porter contro “gli altri”, il mondo ignoto che preme alle frontiere e ci impiccia per la strada». Si può essere più o meno d’accordo con queste affermazioni ma si affaccia comunque un interrogativo: non è che il cristianesimo si stia svuotando dall’interno e si stia adeguando all’indifferenza o, peggio, all’egocentrismo imperante fino a non esprimere più nessuna “differenza” rispetto al pensare comune?
Ci sembra che uno degli elementi sui quali i cristiani dovrebbero ritornare e sul quale porre gesti profetici sia quello dell’impegno per sostenere e difendere a tutti i costi l’umanità di tutti, la propria e quella di coloro che vengono estromessi o comunque posti alla periferia del sistema.
A questo riguardo papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che ricorre proprio il 29 settembre usa il leitmotiv “non si tratta solo di migranti” per indicare il compito della Chiesa di essere al servizio del recupero dell’umanità dell’uomo. Si tratta di mantenere viva l’attenzione su chi non riesce a stare al passo degli altri anche perché vittima di meccanismi perversi tipici della nostra società individualista e consumista.
Dice il Papa: «Non si tratta solo di migranti: si tratta della nostra umanità. Ciò che spinge il Samaritano del Vangelo – uno straniero rispetto ai giudei – a fermarsi è la compassione, un sentimento che non si spiega solo a livello razionale. La compassione tocca le corde più sensibili della nostra umanità, provocando un’impellente spinta a “farsi prossimo” di chi vediamo in difficoltà. Come Gesù stesso ci insegna, avere compassione significa riconoscere la sofferenza dell’altro e passare subito all’azione per lenire, curare e salvare. Avere compassione significa dare spazio alla tenerezza, che invece la società odierna tante volte ci chiede di reprimere. “Aprirsi agli altri non impoverisce, ma arricchisce, perché aiuta ad essere più umani: a riconoscersi parte attiva di un insieme più grande e a interpretare la vita come un dono per gli altri; a vedere come traguardo non i propri interessi, ma il bene dell’umanità”».
E prosegue.
«Non si tratta solo di migranti: si tratta di mettere gli ultimi al primo posto. Gesù Cristo ci chiede di non cedere alla logica del mondo, che giustifica la prevaricazione sugli altri per il mio tornaconto personale o quello del mio gruppo: prima io e poi gli altri! Invece il vero motto del cristiano è “prima gli ultimi!”. “Uno spirito individualista è terreno fertile per il maturare di quel senso di indifferenza verso il prossimo, che porta a trattarlo come mero oggetto di compravendita, che spinge a disinteressarsi dell’umanità degli altri e finisce per rendere le persone pavide e ciniche. Non sono forse questi i sentimenti che spesso abbiamo di fronte ai poveri, agli emarginati, agli ultimi della società? E quanti ultimi abbiamo nelle nostre società!”. […] Nella logica del Vangelo gli ultimi vengono prima, e noi dobbiamo metterci a loro servizio».
Non si tratta solo di migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare, questi verbi «esprimono la missione della Chiesa verso tutti gli abitanti delle periferie esistenziali, che devono essere accolti, protetti, promossi e integrati. Se mettiamo in pratica questi verbi, contribuiamo a costruire la città di Dio e dell’uomo, promuoviamo lo sviluppo umano integrale di tutte le persone e aiutiamo anche la comunità mondiale ad avvicinarsi agli obiettivi di sviluppo sostenibile che si è data e che, altrimenti, saranno difficilmente raggiunti».
Attraverso i più fragili «il Signore ci chiama a una conversione, a liberarci dagli esclusivismi, dall’indifferenza e dalla cultura dello scarto. Attraverso di loro il Signore ci invita a riappropriarci della nostra vita cristiana nella sua interezza e a contribuire, ciascuno secondo la propria vocazione, alla costruzione di un mondo sempre più rispondente al progetto di Dio».
Pensiamo sia possibile, entusiasmante e persino doveroso lavorare in questo senso e testimoniare assieme a chi condivide i pensieri sopra esposti una possibile via di umanizzazione della nostra società.
Lorenzo Rampon, diacono in servizio Caritas Padova