Accogliere è sempre difficile: a volte il prete aiuta la comunità, in altre situazioni la comunità aiuta il prete a vivere l’accoglienza.
Da sempre le comunità sono state chiamate a vivere l’accoglienza. Tanti sono stati i profughi che nell’ultimo secolo sono giunti nel nostro paese. Pensiamo agli albanesi, ai vietnamiti, alle persone provenienti dai Balcani. Tante sono state le persone che dai nostri paesi sono emigrate alla ricerca di lavoro in altri paesi e continenti. La Bibbia stessa è una continua narrazione di uomini e donne che sono in cammino perché fuggono da carestie, persecuzioni, dalla fame e dalla siccità. Il tema dell’ospitalità è sempre stato considerato sacro. Non solo è sacro ospitare ed accogliere, ma l’altro che viene è un dono per me, perché nell’incontro con l’altro io mi conosco, mi arricchisco, mi rendo conto della mia identità, della mia storia, delle mie tradizioni e della mia fede. Oggi tutto questo è profondamente mutato, c’è una narrazione che parla di invasione, minaccia, paura. Le nostre stesse comunità cristiane spesso sono in difficoltà a prendere una decisione e una posizione. Anche noi presbiteri siamo sfidati e provocati su questo tema: come viviamo questa sfida? Che cosa proviamo e sentiamo? Quali sentimenti si muovono in noi? Che cosa proviamo ascoltando i nostri parrocchiani parlando di questo tema?
Vivere l’accoglienza in particolare nei nostri territori, è veramente difficile, perché non è un vanto e un onore accogliere, ma è una scelta che crea contrasto, divisioni, polemiche. Personalmente, confrontandomi con altri territori e regioni, penso che accogliere oggi, qui da noi è una grande occasione. Perché sento che il clima che stiamo vivendo ci costringe a fare delle scelte. A qualificare altamente la nostra carità e accoglienza. Stretti tra il buonismo e la chiusura, possiamo uscirne proponendo un’accoglienza forte, oserei dire “severa”, nel senso di fatta bene. Cercare e proporre modelli umili nel numero ma forti nell’esemplarità. Attenti alle persone che accogliamo perché possano fare veri percorsi e cammini di integrazione, attenti al territorio perché la gente della comunità possa realmente incontrare e conoscere attraverso le microaccoglienze le persone accolte, attraverso un “controllo sociale” delle cooperative perché diano il meglio di loro stesse.
Riusciremo come Chiesa non tanto a dare i numeri di quante persone accogliamo, ma a raccontare piccole ma reali storie di accoglienza, di integrazione, di cammini dove sono cresciuti i migranti, sono maturate in consapevolezze le comunità, dove le cooperative hanno dato il meglio di loro stesse, dove si sono create nuove alleanze territoriali e sono emerse nuove energie fino ad ora ancora non espresse?
Vivere l’accoglienza qui da noi, oggi, non è facile, ma ci costringe a nuovi e inediti cammini, molto più profondi, intensi e qualificati.
Oggi l’accoglienza qualificata chiede di procedere a piccoli passi, di far maturare consapevolezza, di formare e informare, coinvolgere, confrontarsi, fare scelte, ascoltare… In questo senso accogliere è difficile ma è un piccolo grande segno di essere cristiani-discepoli di Gesù, diventa scuola di vita, qualifica, e dice il nostro essere comunità in un territorio.
don Luca Facco,
direttore Caritas diocesana di Padova