Che i nostri tempi siano segnati dalle migrazioni è un fatto indiscutibile. Che le migrazioni siano un segno dei tempi è un dato alquanto discutibile. Cerchiamo di spiegarne i motivi.
I nostri sono tempi indubbiamente segnati e contraddistinti dalle migrazioni, in quanto sono circa 275 milioni le persone che vivono in un paese diverso dal quello in cui sono nate, e continuano ad aumentare costantemente, a ritmi più veloci della popolazione mondiale, secondo il World migration report 2020. Per questo motivo le migrazioni internazionali sono considerate una componente strutturale della realtà sociale, economica e politica del mondo contemporaneo.
A questo significativo dato hanno contribuito le nazioni europee, sia con le migrazioni in uscita, specie alla fine dell’Ottocento, sia con quelle attualmente in entrata. Per fare un esempio che ci riguarda da vicino: in cento anni, a partire dal 1861, dall’Italia sono emigrate 24 milioni di persone; attualmente sono cinque milioni gli italiani che vivono all’estero, e altrettanti cinque milioni sono gli immigrati stranieri regolarmente presenti in Italia.
Se, ora, da questa realtà e consistenza cerchiamo di passare alla sua interpretazione, la situazione si fa più complicata, perché si presuppone uno sguardo acuto, una visione allargata e prospettica della storia, una capacità di intuire lo sviluppo e l’orientamento dei fatti a partire da determinati segni. Per i credenti, i cristiani in particolare, alcuni avvenimenti possono essere letti come segni provvidenziali, e per questo chiamati “segni dei tempi”. Per fare questo salto, però, non basta solo una visione allargata della storia: occorre anche uno “sguardo di fede” sulla storia, basato sulla certezza che Dio continua ad agire nella storia. A tal riguardo, per quanto riguarda le migrazioni, c’è un tesoro interpretativo cui attingere, accumulato nel tempo dalla riflessione ecclesiale. Eccone alcuni cenni.
Le migrazioni sono un segno visibile della condizione umana, considerata dalla coscienza comune come un passaggio, e dalla coscienza cristiana come un pellegrinaggio verso la Patria vera, tanto che il cristiano è definito pàroikos, un residente temporaneo, uno straniero, un ospite, ovunque si trovi.
Ancora: grazie alle migrazioni, l’incontro dei popoli rivela il progetto di Dio, che è fare di tutti un’unica famiglia. Sono significative al riguardo le parole che alla fine dell’Ottocento scriveva Giovanni Battista Scalabrini, beatificato con il titolo di “padre dei migranti”: «Mentre il mondo si agita abbagliato dal suo progresso (…); mentre le razze si mescolano, si estendono e si confondono; attraverso il rumore delle nostre macchine, al di sopra di tutto questo lavorio febbrile (…) si va maturando quaggiù un’opera ben più vasta, ben più nobile, ben più sublime: l’unione di Dio, per Gesù Cristo, di tutti gli uomini di buon volere».
Ancora più decisiva, dal punto di vista etico, è la concretezza del Vangelo: il Signore si identifica con lo straniero (“Ero straniero e mi avete ospitato”, Mt 25,35) e la famiglia di Nazareth, nella fuga in Egitto, è una famiglia di profughi che sfugge dalla persecuzione e chiede accoglienza.
Su quest’ultima applicazione di “segno dei tempi”, che richiama la giustizia, la difesa e la promozione dei profughi e dei migranti, si apre uno scenario di impegno etico irrinunciabile, che vede nelle Istituzione ecclesiali, nel volontariato e nelle associazioni impegnate nel settore, un richiamo costante alla coerenza e alla concretezza della fede.
don Gianromano Gnesotto, direttore Ufficio di Pastorale dei Migranti – Migrantes