Il filosofo-teologo Romano Guardini aveva confidato a un amico che nel giorno del Giudizio Finale egli non si sarebbe solo lasciato interrogare da Dio, ma avrebbe a sua volta posto a Dio delle domande. E soprattutto una questione lo aveva accompagnato per tutta la vita: “Perché la sofferenza degli innocenti? Perché il dolore?” (testimonianza di W. Dirks)
Il problema della sofferenza, presente in tutte le sue forme, ha sempre provocato reazioni e riflessioni nell’umanità e tante sono le esperienze e i tentativi di spiegazione. Con il termine “sofferenza” indichiamo spesso realtà diverse, con cause diverse: ci sono sofferenze fisiche, morali, psicologiche, spirituali. C’è un dolore-sofferenza che è strettamente legato alla fragilità-precarietà della nostra condizione umana.
Sono le sofferenze dovute alla malattia (acuta o cronica), a sciagure naturali, a incidenti di varia natura. Tutto ciò provoca dolore fisico e psichico e ci ricorda la nostra mortalità, ci fa fare drammaticamente esperienza del “limite” del nostro vivere sulla terra. C’è poi una sofferenza dovuta al male provocato dagli uomini: guerre, ingiustizie, oppressioni, violenze. Viene qui calpestata la dignità delle persone a causa dell’egoismo, dell’orgoglio, della brama di potere che nascono dal cuore dell’uomo e si manifestano attraverso complessi fenomeni sociali, economici e politici. Vi è inoltre una sofferenza che dipende dal coraggio di essere responsabili fino in fondo verso gli altri per il cui bene si lotta, fino a “pagare di persona”. È la sofferenza del “giusto”, in un mondo spesso “corrotto” e che difficilmente accetta la verità e il bene.
Mentre di solito il primo tipo di sofferenza non è evitabile, il secondo lo è, anche se con grande difficoltà. Il terzo tipo potrebbe più facilmente essere evitato, ma diventa questione di coscienza e di testimonianza verso sé stessi e verso gli altri.
In tutte queste esperienze di sofferenza sorge la domanda del “perché”, del senso di ciò che si prova, di cosa sia risolvibile e ciò che va sopportato perché non eliminabile. San Giovanni Paolo II ricorda nella Salvifici doloris che «solo l’uomo soffrendo sa di soffrire e se ne chiede il perché, e soffre in modo umanamente ancor più profondo se non trova soddisfacente risposta».
La ricerca di senso, ma anche di sollievo, di cura, di ascolto e vicinanza, rinviano al desiderio profondo di salvezza, di liberazione; per non essere “schiacciati” dalla sofferenza, ma essere aiutati a vivere “attraverso” di essa, a “risorgere” perché si scopra di essere amati e capaci di amare e sperare anche nella sofferenza.
Per il cristiano «finché siamo nel mondo, anche la nostra speranza è crocifissa e rigenera giorno per giorno nell’esperienza della croce. Nasce dalla croce… e nella croce ha il suo humus e la sua forza» (vescovo Filippo Franceschi).
Libertà, responsabilità, amore: sono le condizioni, le “virtù” che possiamo esprimere di fronte alla sofferenza, per non subirla passivamente e disperatamente, o per pensare di dominarla eliminandosi con un atto violento, come suicidio ed eutanasia. Una libertà compresa e vissuta nelle relazioni, non in modo individualistico, come soggetto unico “proprietario” del corpo e della stessa vita, e non responsabile verso un dono ricevuto e da condividere. Anche il non credente può trovare una dignità rispettata, un conforto da una comunità che cura e sostiene, per un accompagnamento nel caso di malattia inguaribile. È quanto si impegnano a fare le cure palliative, che non intendono né accelerare né rinviare arbitrariamente il momento della morte. Per cui si fa esperienza di umanità, senso, speranza, anche nella sofferenza.
Il credente trova nella fede in Cristo la capacità di discernere, di valutare la propria sofferenza e quella di tanti altri. Saprà invocare lo Spirito per impegnarsi nella liberazione della propria e altrui sofferenza, avvalendosi della medicina e lottando per la giustizia. E saprà accettare la sofferenza che non è del tutto eliminabile, interpretandola alla luce della croce di Cristo per la salvezza del mondo, partecipando alla Pasqua di resurrezione. In attesa della liberazione definitiva: «E tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamenti, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap. 21, 4)
mons. Renzo Pegoraro, cancelliere Pontificia Accademia per la vita