Nella sua riflessione sulla fratellanza, papa Francesco si rifà alle fonti bibliche. Nel Primo Testamento, quando si parla dello straniero, si distingue tra chi proviene da un altro popolo (goy) e chi si è stabilito in mezzo a Israele (ger). È questo secondo di cui si dice che deve essere rispettato. Questa differenza sparisce totalmente nella parabola del Buon Samaritano. Lì è lo straniero che si fa prossimo di una persona che – presumibilmente – era membro di Israele.
La parabola del Samaritano fa risaltare la componente sociale del messaggio cristiano. Con le parole stesse di Francesco, «il racconto non fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si circoscrive alla funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”», (Fratelli tutti, 68).
Nel quarto capitolo di Fratelli tutti, papa Francesco introduce il tema della cittadinanza. Francesco sottolinea che «è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità» (131).
Il papa ci ricorda che cittadino non è solo colui che è nato in un luogo, e che vanta un diritto naturale alla residenza. Cittadino è anche colui che acquisisce tale diritto attraverso la permanenza nel luogo e il lavorio di inserimento nel tessuto locale per farne parte.
Possiamo approfondire questo pensiero e applicarlo alla Chiesa. Anche la Chiesa è una società, una società che fa della fratellanza una sua bandiera.
Ma è proprio vero che la nostra Chiesa è aperta allo straniero in mezzo a noi?
Se guardiamo all’aspetto caritativo, certamente gli stranieri ricevono attenzione. Non pare però che questo sia prevalente negli altri aspetti della vita della comunità cristiana. Gli stranieri sono spesso invisibili nelle celebrazioni liturgiche, nei gruppi parrocchiali, nelle attività della comunità. Non aiuta che alcune comunità abbiano una vita liturgica propria. Importanti come momento di aggregazione, queste celebrazioni ”nazionali” non aiutano l’integrazione.
C’è poi la grande domanda che aleggia nell’aria.
Le nostre comunità sono veramente pronte a confrontarsi con lo straniero in mezzo a noi?
Apriamo davvero la porta alla partecipazione a titolo pieno nelle nostre attività, a cominciare dal cammino sinodale, che prevederebbe la presenza di tutti, l’ascolto ma anche la disponibilità ad accogliere valori nuovi e nove prospettive di fede?
Sfortunatamente, la questione della piena cittadinanza non è ancora diventata un valore acquisito. Anzi, spesso le comunità locali si ergono a riccio contro la piena accoglienza di chi è percepito come straniero. Questo è dovuto alle paure che ogni cambiamento porta con sé. Molte comunità locali temono il cambiamento perché sono insicure della loro stessa identità. Eppure, ricorda il papa, rifiutarsi di affrontare la questione vuol dire preparare «il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrarre le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli», (131).
Va qui sottolineato che un’accoglienza senza regole sarebbe altrettanto disastrosa. Chi accoglie e chi viene accolto devono insieme fare un cammino di riscoperta di sé stessi, della propria identità, dei propri interessi. Solo così ci sarà la base della vera alterità. Alterità non vuol dire una differenza da colmare per giungere alla conformità, l’appiattimento delle diversità. Al contrario, l’alterità deve essere vista come un’opportunità: il saper riconoscere le differenze, il saper trovare un terreno comune, nel pieno rispetto dell’altro, per poter costruire insieme. Questo è il modo di valorizzare le identità individuali senza compromettere nuovi traguardi futuri.
p. Giuseppe Caramazza e p. Gaetano Montresor, missionari comboniani