Una mamma di due bambini piccoli – 6 e 7 anni – chiede un consiglio al parroco: è opportuno oppure no portarli al funerale del nonno?
Nel mondo occidentale si assiste da una parte a una presenza fittizia della morte (ne veniamo a contatto attraverso il mondo dei media, dove è un insieme di notizie e di finzioni), dall’altra a un’assenza reale della morte dai luoghi quotidiani della vita, perché affidata o relegata in ambienti particolari come gli ospedali o le case di riposo. La rimozione del morire allevia il dolore, ma paradossalmente rende l’uomo meno capace di sopportarlo; non innesca quei meccanismi di senso, che solo l’esperienza diretta del patire e morire può innescare. Oggi siamo quindi meno attrezzati, culturalmente e spiritualmente, a confrontarci con la morte. Nonostante questo, messi di fronte alla sua faccia, abbiamo un estremo bisogno di simboli, segni, gesti, non solo di spiegazioni mediche o scientifiche. I funerali sono ancora per la stragrande maggioranza religiosi, raccolgono un numero alto di persone. Il nostro linguaggio e le nostre prassi pastorali avrebbero bisogno di rinnovarsi per colmare un vuoto simbolico, attingendo al mistero pasquale.
Il Verbo incarnato ha assunto la morte fin in fondo, non una morte gloriosa, dell’uomo alla fine dei suoi giorni, dell’eroe, ma come, dice san Paolo, una mors autem crucis. La morte del peccatore, del condannato, del lontano da Dio. Il Verbo ha assunto la morte nella sua valenza più drammatica. In questo modo la morte è entrata in Dio ed è stata svuotata dal suo interno: le è stato tolto il “pungiglione”, il proprium, cioè l’assenza di relazione. Non è stata annullata, perché rimane come prova, ma privata della sua conseguenza, del suo veleno. Ti morde ma non ti uccide.
Poter vivere la finitezza della morte, allora, significa toglierle ciò che più spaventa di essa: l’assenza di relazione, l’interruzione del rapporto con se stessi, con gli altri, con Dio. Questo è possibile attraverso la via della prossimità.
Ma oltre al segno della solidarietà, c’è bisogno di una parola, che sia rispettosa del morire ma che porti senso al non-senso della morte. A volte i parenti di una persona in fin di vita, dicono al prete: “Gli dia l’unzione, padre, ma faccia in modo che non s’accorga”. Il rischio in questo nostro tempo, che rimuove la morte dalla vita quotidiana, è quello di non essere più in grado di vivere l’evento della morte come un evento della vita. E anche i segni sacramentali con cui la fede accompagna questo momento hanno perso la loro valenza simbolica e soprattutto relazionale. Forse in passato il cristianesimo aveva insopportabilmente esagerato nelle parole, disturbando il silenzio della morte. L’uomo d’oggi corre il rischio di non avere alcuna parola, lasciandosi dentro solo l’enigma irrisolto della morte. La fede trasforma la morte da enigma a mistero. Enigma è qualcosa che è senza soluzione, e non lascia speranza. Mistero è ciò che può essere detto, evocato, anche se non esaurito. La morte nel cristianesimo non è ridotta a spiegazione logica, ma non rimane un enigma. Diventa mistero: acquista senso dentro qualcosa di più grande. La fede pone nel cuore la certezza, che ogni persona finita, mortale, anche e proprio nella morte è custodita in Dio: «Sono infatti persuaso che né morte né vita… potrà mai separarci dall’amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore» (Romani 8, 38-39).
Penso a tutti coloro che condividono gli ultimi respiri di una persona cara, di un anziano, di un ammalato, di un paziente: accompagnare significa mostrare innanzitutto, con la prossimità, che la morte non è rottura della relazione; significa intuire nel morente anche parole non dette, e saperle trasformare in preghiera.
Conosciamo tutti il filosofo e matematico francese Blaise Pascal, forse non conosciamo l’episodio che accompagnò la sua morte. Si ammalò gravemente e chiese l’Eucaristia; essendo giansenista gli venne rifiutata. Allora chiese di essere portato in un ospedale di poveri (dei miserables). Ma anche questo non gli fu concesso perché era nobile. Infine chiese di poter aver accanto al suo letto un povero, convinto che quella vicinanza rappresentasse il Signore e fosse la sua redenzione.
Pascal aveva compreso bene i due grandi segni del cristianesimo che ci mettono in relazione con Dio e gli altri in tutta la vita e soprattutto nell’ultimo atto della vita che è la morte: i due segni di Emmaus.
don Andrea Toniolo, docente di teologia, Facoltà teologica del Triveneto – Padova