Gli organismi aiutano a capire il senso della carità di tutta la comunità
“12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici.” (Gv 15,12-13).
La parola di Gesù connota di una modalità nuova il precetto dell’Amore verso Dio e verso il prossimo: “amare come Lui” diventa la cifra dell’amore più grande di tutti proprio perché Egli “ha dato la vita” per tutti. Ogni discepolo di Gesù, pur nella consapevolezza di non essere più grande del proprio maestro (Mt 10,24; Gv 13,16), è intimamente consapevole che il comando del Signore deve tradursi via via da vocazione a progetto, impegno, stile di vita; anzi, a voler essere puntuali, il comandamento dell’amore deve divenire il suo “modus vivendi”. Amare sino a dare la propria vita, non significa solo amare fino all’estremo sacrificio ma anche vivere in totale dedizione al prossimo; basti pensare a chi, nel rispondere all’appello di Gesù, dona ogni giorno della propria esistenza al servizio della Chiesa, nel sacerdozio come nella vita consacrata, oppure a chi, come nel matrimonio cristiano, la consacra nel servizio quotidiano dei figli, della famiglia, della comunità. Donare la vita “come Gesù” è un impegno personale, che richiede la spogliazione di se stessi, per riuscire a chinarsi a lavare i piedi del fratello e, nella costanza quotidiana, ciò non è molte volte affatto romantico. Lavarsi i piedi l’un l’altro implica una rinuncia a sé e una disponibilità all’altro totale e Gesù ce lo dice apertamente: «vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). È un esempio che, tuttavia, non è da seguire solo con una adesione personale; quell’“anche voi” interpella il discepolo anche nella propria coscienza ecclesiale, è un comando pronunciato al plurale quasi a indicare che, oltre che come impegno personale, esso si realizza e si perfeziona quando è vissuto insieme, nella comunità. Quell’“anche voi” chiama in causa la Chiesa e il suo mandato a essere formalmente e sostanzialmente dispensatrice dell’amore del Signore, memore che i discepoli sono riconosciuti come suoi proprio in virtù dell’amore reciproco (Gv 13,35) e non per la quantità numerica o il portento delle attività. La comunità dei credenti in Cristo, conformandosi all’esempio del Signore che si china a lavare i piedi (Gv 13,5.14) ha già le indicazioni su cosa e come fare per essere nel mondo il suo sapore e la sua luce (Mt 5,13-14) e finanche il suo profumo. La comunità dei fedeli, quindi, non può trascurare di ricercare l’incontro con il suo Signore, oltre che nella Parola e nell’Eucaristia, nella persona del “fratello” da amare e servire. Ne troviamo al riguardo spunto nella Lettera enciclica Deus Caritas Est: «L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro» (Lett. enc. Deus caritas est, 25). Anche il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza (cfr ibidem). All’esercizio della diakonia della carità la Chiesa è chiamata anche a livello comunitario, dalle piccole comunità locali alle Chiese particolari, fino alla Chiesa universale; per questo c’è bisogno anche di un’«organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato» (cfr ibid., 20), organizzazione articolata pure mediante espressioni istituzionali. L’esercizio della carità dunque è una priorità pastorale e ne diventerebbe finanche una sfida se la Chiesa, a qualsiasi livello, non riuscisse a esprimere, come comunità, la virtù della carità vissuta individualmente dai fedeli. Già Paolo VI ne aveva preso coscienza sollecitando la CEI all’istituzione, nell’ormai lontano 1971, della Caritas Italiana, quale «organismo pastorale… con prevalente funzione pedagogica» (art. 1 Statuto Caritas Italiana). Ancora Benedetto XVI ne aveva rilanciato l’importanza (di una pastorale della carità) con la Lettera apostolica in forma di motu proprio Sul servizio della Carità del 2012 e in particolare all’art. 9 in cui indicava il dovere del vescovo diocesano di «favorire la creazione in ogni parrocchia di un servizio Caritas che promuova un’azione pedagogica». Su questa linea, come già indicato negli Esercizi di fraternità per la verifica e il rinnovo degli Organismi di comunione, i Coordinamenti pastorali vicariali sono chiamati a una verifica anche sulla Pastorale della Carità. Questa verifica dovrebbe consentire di trasmettere in eredità e come consegna ai nuovi Organismi di comunione il discernimento necessario per favorire l’individuazione, la formazione e la valorizzazione, dei “ministri della Carità” (così come li nominò il nostro vescovo Claudio all’Assemblea Caritas del 2015), al pari di quelli della catechesi e della animazione liturgica, affinché la comunità sia orientata e coinvolta su proposte pastorali che investano sulla centralità della persona, sulla qualità delle relazioni, sulla corresponsabilità e l’interazione di tutte le proprie componenti con lo stile del “lavarsi i piedi l’un l’altro”.
diacono Giorgio Toffanin – referente Caritas vicariato Montegalda