Erano due “signorine” (si diceva così, con la gentilezza del linguaggio un po’ ingessato di allora), che facevano per noi bambini l’adunanza delle fiamme bianche, poi verdi e poi rosse; stavamo in chiesa – in novanta, cento, numeri da capogiro – ci mettevano in ginocchio, davanti alla seduta del banco e, con il marmo freddo, sotto le ginocchia nude di chi portava le braghette corte, coloravamo i “primi” cartelloni di quella nuova esperienza che sarebbe diventata da lì a pochi anni l’Acr… Erano gli anni ’70 e fin da allora ricordo che le “signorine” dicevano che quando la messa finiva – Ite missa est – doveva subito iniziare l’impegno di una vita da veri cristiani, autentici e generosi… In quegli anni un po’ rapiti dai facili ottimismi e degli speranzosi ideali universali, lo slogan più ripetuto – che cosa banale sono gli slogan! – suonava grossomodo così: la messa è finita ma continua nella vita! Posso però dire con tutta onestà, oltre la mia personale idiosincrasia per gli slogan, che tutto ciò – proprio ora che il mio mestiere nella Chiesa è fatto anche di pensiero – lo sento assolutamente semplice, vero e necessario: noi non siamo chiamati a dire: «Signore, Signore…», ma a «fare la volontà del Padre che è nei cieli» (cfr. Mt 7,21), a vivere il Vangelo del Signore. Le “signorine”, ma anche il mio parroco o il cappellano (non si diceva il don: quello era il campanile a dirlo, assieme al din e al dan!), gli animatori o le suore, i catechisti e l’uomo di grande mole, il sacrestano, facevano infatti molte cose buone e rette, gradevoli e affascinanti per noi bambini: ci insegnavano le cose di Dio (la dottrina), a volerci bene e a voler bene, ci facevano giocare, ci aprivano il patronato e le sale, i campi da calcio e le giostrine, ci portavano in chiesa – prima del “film della domenica pomeriggio” (quello delle due!) – per parlarci ancora un po’ del Vangelo, ci portavano a cantar gli auguri di Natale “ai vecchietti dell’ospizio”, accatastavano le cose per le persone povere nella sala della San Vincenzo… A conti fatti è quello che anche oggi i bambini vedono nelle nostre parrocchie, forse solo – en passant – sentendo chiamare le cose con nomi diversi.
Tutto questo, davvero mi preme dirlo, ha un’origine incontrovertibile per ognuno di noi: la messa, ogni domenica! E insieme! Il pregio di quel tempo forse era il fatto che non lo si diceva molto (come sto scribacchiando io!), non lo si commentava, non lo si didascalizzava, non si lo si “riunionizzava”… si faceva! L’Eucaristia è per tutti la ragione più vera, e che queste righe sanno solo evocare un po’, per essere gli uni per gli altri apostoli di Gesù Cristo: l’invio missionario che scaturisce dalla celebrazione dell’Eucaristia non può essere ridotto allo slogan un po’ più moderno: è urgente andare, come si dice in clericalese… Questo anche perché che tra me e l’Eucaristia non esiste una continuità diretta e immediata, del tipo: «finisce la messa, continuo io…»; se così fosse, essere missionari a partire dall’Eucaristia, vorrebbe dire semplicemente darsi da fare per portare avanti ideali, convinzioni e valori. L’Eucaristia invece è lo stesso Signore, sacrificato, sepolto e risorto; è la sua Pasqua, il mistero al quale egli continua a renderci presenti a sé, il Vivente; è tutto l’amore di Dio del quale noi siamo solo un piccolo riflesso; l’Eucaristia ci dà quello che ci chiede: per questo “ci invia”! Per questo dire di essere missionari a partire dall’Eucaristia significa continuare a fare le cose evangeliche della vita ordinaria, sapendo che esse sono il segno visibile di tutto l’Amore che abbiamo ricevuto.
«Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,7-10).
don Gianandrea Di Donna, direttore Ufficio diocesano per la Liturgia di Padova