«Non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato» (Eb 10,5).
L’autore della Lettera agli Ebrei approfitta della versione greca del Salmo 40 per annunciare come “preparazione di un corpo” la novità dell’evento Cristo, che porta a compimento il culto praticato nel tempio di Gerusalemme.
Il testo ebraico del salmo parla di orecchi («gli orecchi mi hai aperto»: Sal 40,7), il testo greco si riferisce a un corpo preparato. Il Figlio, mediante il quale Dio ha fatto il mondo; il Figlio che è erede di tutte le cose, irradiazione della gloria e impronta della sostanza di Dio (cfr. Eb 1,1-3) riceve un corpo.
È ciò che accade a ciascuno di noi. Il corpo ci è dato. O, piuttosto: siamo dati a noi stessi e agli altri come corpo. Nessuno si è dato un corpo, così come nessuno si è dato un nome. Abbiamo ricevuto un nome, al momento della nostra nascita o del nostro battesimo, così come, ancora prima della nascita, abbiamo ricevuto un corpo.
Nel corso della vita possono accadere tante cose, ma in nessun momento siamo autorizzati a pensarci come se corpo e nome non ci fossero stati dati prima di ogni nostra richiesta e prima di ogni nostra decisione in merito. Possiamo vivere con fastidio il corpo che ci è dato, può non piacerci il nome che abbiamo ricevuto: non possiamo fare a meno di misurarci con ciò che ci precede facendo di noi quello che siamo. Senza un corpo e un nome dati, semplicemente non saremmo, non esisteremmo.
A questo punto si aprono due strade: quella che ci porta a sperimentare il corpo come una condanna contro cui lottare o alla quale rassegnarci; quella che ci suggerisce di accoglierlo come un dono, con stupore, gratitudine, creatività.
Non sono due alternative secche. Nel corso della vita capita di trovarsi ora sull’una, ora sull’altra: il corpo che siamo, e sul quale abbiamo un controllo alquanto limitato, può rivelarsi di volta in volta tanto un condanna quanto un dono. Non dipende solo dalle circostanze, che pure contano, ma dall’atteggiamento che assumiamo, con un atto di libertà, di fronte a ciò che potrebbe sembrare solo il frutto del caso o del destino.
Cosa posso fare del corpo che mi è dato?
Il corpo che il Figlio ha ricevuto dal Padre è stato trasformato in un dono: «Questo è il mio corpo, che dato per voi» (Lc 22,19).
Le storie di tante persone continuano a mostrare che questa scelta permette di rispondere positivamente al dato originario.
Come trasformare il corpo che ci è stato dato in un dono da offrire all’altro?
Essere corpo significa esistere come spazio e come tempo (non semplicemente “nello” spazio e “nel” tempo), come realtà segnate dal limite, da un inizio e da una fine.
Il nostro corpo, come ogni altro corpo, delimita uno spazio, permette contatti e segna separazioni. Fare spazio all’altro è un modo per fare del proprio corpo un dono.
Il nostro corpo, come ogni altro corpo, porta i segni del trascorrere del tempo. Se voglio tenere per me il tempo muoio: dare tempo all’altro, trovare tempo per l’altro, mi fa vivere.
don Riccardo Battocchio, docente di Teologia dogmatica alla Facoltà teologica del Triveneto
Nella foto: Il mio corpo cambia e si trasforma, ma io sono sempre io di Isabella Carmisciano