L’evangelizzazione è un concetto complesso in sé ed è anche la questione più cruciale e impegnativa per la Chiesa di tutti i tempi, in particolare per quella di oggi. Essa riguarda in senso stretto la Chiesa e in senso più generale l’identità del cristianesimo e il significato che esso ha per la vita dell’uomo.
Dopo una lunga parentesi durata molti secoli nella quale la Chiesa ha dato priorità al suo assetto strutturale anziché all’evangelizzazione, con la conseguente estromissione del termine dal vocabolario teologico-pastorale, con il Vaticano II essa ha ritrovato l’attenzione che le si doveva. Il Concilio ne ha indicato alcuni aspetti molto generali: la sola predicazione missionaria, il ministero della Parola e l’attività della Chiesa in quanto missionaria. Nel 1975, dopo l’Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi sull’evangelizzazione, Paolo VI ne ha precisato meglio l’orientamento affermando che «evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (Evangelii nuntiandi, n. 14). In questa definizione sintetica ed esaustiva si coglie, sebbene non esplicitato, il fondamento dell’evangelizzazione che è Dio e il soggetto storico che è la Chiesa. Egli infatti afferma che evangelizzare è “grazia” (dono che viene da Dio) ed è anche “vocazione” (compito della Chiesa). Nel contempo ne indica un ordine logico e teologico: prima il dono (fondamento) poi il compito (l’operosità della Chiesa). Si deve partire dal Cristo evangelizzatore per poi parlare di tutto il popolo di Dio che evangelizza (cf. Evangelii gaudium, 111-134). L’orientamento è chiaro anche dal punto di vista pastorale: la Chiesa, prima di occuparsi o preoccuparsi dell’attività missionaria di evangelizzazione, che è la sua ragion d’essere storica (esiste per evangelizzare), deve per prima lasciarsi evangelizzare accogliendo il Vangelo come dono per comprendersi anche lei come dono a servizio dell’uomo. Inoltre, esiste una tale intimità tra Vangelo (Gesù) e Chiesa da poter tranquillamente dire che la Chiesa prende forma e volto dal Vangelo. Essa è chiamata ad annunciarlo a tutti rimanendo fedele al Vangelo e ancora di più allo “stile” di Gesù che ha annunciato il Regno di Dio con gratuità e disinteresse personale, con senso di ospitalità e di apertura alla fede di “chiunque”, con spirito di verità e di disponibilità al dialogo con tutti, senza alcuna intenzione di proselitismo. L’evangelizzazione è quindi un modo di essere, prima ancora di una “cosa da fare”. È un interesse per l’uomo, per la sua liberazione dal male e per la sua promozione integrale. Liberare dal male, secondo C.M. Martini, significa «tirare fuori dal non senso, dalla frustrazione e dalla noia, dalla disperazione, dal disgusto della vita, dall’incapacità di amare, dalla paura del dolore e della morte. È dare risposta alle invocazioni più profonde di ogni coscienza umana» (C.M. Martini, Ripartiamo da Dio, Centro Ambrosiano, Milano 1995, 56). Per questo si può anche dire che l’evangelizzazione è un servizio da rendere all’uomo e all’intera famiglia umana (mondo, società, stati) nei termini con i quali Paolo VI ha parlato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (1965): «Non abbiamo nessuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chiedere, quello di potervi servire in ciò che a noi è dato di fare, con disinteresse, con umiltà e amore». Papa Francesco aggiunge che il segno della liberazione dal male è la “gioia”; essa proviene dal Vangelo ed è come una linfa vitale che «riempie il cuore e la vita di coloro che si incontrano con Gesù» (Evangelii gaudium, 1). Ma quando l’annuncio del Vangelo non raggiunge l’uomo concreto nel suo contesto di vita, significa che non ha fatto breccia nella sua anima; è rimasto a lato della vita quotidiana forse perché ritenuto privo di significato e inutile nei processi di elaborazione di sé, delle esperienze e delle aspirazioni spirituali, e nell’utilizzo «di tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo» (Gaudium et spes, 53). Per Paolo VI si tratta di una rottura “tra Vangelo e cultura” che costituisce «il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (Evangelii nuntiandi, 20). Le sue parole sono ancora attuali. Oggi infatti si parla di “exculturazione” del cristianesimo intendendo dire che il cattolicesimo è un “mondo” a se stante, privo di un supporto culturale sul quale aveva costruito la sua identità e il suo ruolo nella società. Ma di quale supporto culturale ha bisogno il cristianesimo di oggi? Su quale cultura o culture deve essere ri-costruito? Uno sguardo al recente passato ci porta a dire che il deficit di credibilità del cristianesimo non va colmato riproponendo i contenuti dottrinali dell’evangelizzazione come si è voluto fare negli anni ’90 con l’ideazione di un “Progetto culturale” (1996), orientato in senso cristiano e la pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica (1992), bensì mediante una “Chiesa in uscita” che si rende presente negli ambiti di vita con la testimonianza dei suoi figli. La testimonianza di vita cristiana è, infatti, la prima delle tre vie dell’evangelizzazione (testimonianza cristiana, predicazione del Vangelo, riunione del popolo di Dio) ed è quella più urgente e cruciale per la Chiesa di oggi. Pertanto occorre forse fare un passo indietro e decidere di impegnare maggiori risorse umane, spirituali e culturali per la formazione della coscienza e per l’accompagnamento a stili di vita evangelici, che siano segni di una visione di vita e di una comprensione della realtà (cultura) orientate in senso cristiano così come bene ci viene ricordato nella lettera A Diogneto: «Ciò che l’anima è nel corpo, questo siano nel mondo i cristiani» (n. 6).
don Gaudenzio Zambon,
segretario generale Fttr e docente di teologia dogmatica all’Issr di Padova