Nell’Ufficio delle letture, all’undicesima settimana durante l’anno, ci viene offerto il commento al Padre nostro di san Cipriano.
Il vescovo africano scrive: «Innanzitutto il dottore della pace e maestro dell’unità non volle che la preghiera fosse esclusivamente individuale e privata, cioè egoistica, come quando uno prega soltanto per sé. Non diciamo “Padre mio, che sei nei cieli”, né: “Dammi oggi il mio pane”, né ciascuno chiede che sia rimesso soltanto il suo debito, o implora per sé solo di non essere indotto in tentazione o di essere liberato dal male. Per noi la preghiera è pubblica e universale, quando preghiamo, non imploriamo per uno solo, ma per tutto il popolo, poiché tutto il popolo forma una cosa sola».
Il Padre cui ci rivolgiamo è Padre “nostro”: nostro perché ci ha voluti lui, ma nostro anche perché e quando lo accogliamo noi come Padre; e lo accogliamo come nostro; e lo accogliamo insieme. E così il “pane nostro”-Cristo è pane “nostro” perché così si è offerto lui a noi, ma anche perché noi lo riceviamo come pane; e come nostro; e insieme agli altri. Nostro non nel senso che escludiamo che sia di altri (di quelli che non lo conoscono per esempio), ma nel senso che ci diventa familiare e in lui sperimentiamo di essere nutriti-insieme.
Qualcosa del genere deve aver sperimentato chi per primo ha usato la parola “com-pagno”, chi per primo ha intuito che il pane non ha solo la forza di nutrire, ma anche di creare un “con”. Come il Padre ci fa co-figli, e cioè fratelli tra noi. Cipriano, autore del De unitate Ecclesiae non usa l’espressione compagno, ma vede nel corpo di Cristo mangiato quotidianamente quello che tiene insieme il corpo della chiesa, luogo di salvezza. Per questo essere escluso “dal corpo” per qualche “peccato grave” (delictum) sarebbe una disgrazia, qualcosa “di cui preoccuparsi” perché è lui-pane (che riceviamo solo insieme ad altri) che dà la vita eterna.
La liturgia delle ore ci riporta solo quello che Cipriano dice sul pane-Cristo, nutrimento quotidiano nell’eucaristia (che quindi pare fosse celebrata anche ogni giorno), ma il seguito, che non ci viene riportato, si sofferma sul pane-vitto, quello della vita quotidiana. Il santo vescovo africano lo colloca in un contesto interessante: il discepolo di Gesù rinuncia a tutto, dice, obbedendo alle parole di Gesù in Lc 14,33, sceglie di essere perfetto vendendo i suoi beni, distribuendoli ai poveri e procurandosi così un tesoro in cielo. Ma allora il pane che gli serve per la vita fisica non lo attinge più alle sue proprietà, a quanto ha accumulato, come fa lo stolto ricco di Lc 12,20, ma lo chiede al Padre, e lo chiede solo “quotidiano” quello necessario oggi, e lo riceve da lui con gratitudine, perché «il padre vostro sa quello di cui avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date» (Mt 6,31). «Di Dio infatti è tutto, e a chi ha Dio non mancherà niente, se non mancherà se stesso a Dio» (PL 4,532-534).
Nel De opere et eleemosynis (PL 4,601-622) riprenderà il tema del cibo dato in elemosina, affrontando anche le preoccupazioni per i propri familiari, che sembrano esigere che si accumulino ricchezze. Avere tanti figli, dice, richiede proprio il contrario, e cioè di essere “ancor più generosi nelle buone opere”, perché “devi pregare per più persone, devi riscattare i peccati e rendere pura la coscienza di più persone e liberare più anime”. «Se ami davvero i tuoi figli, se offri loro una piena e paterna dolcezza di carità, devi darti maggiormente da fare per raccomandare a Dio i tuoi figli con opere giuste».
Cipriano è testimone di una chiesa perseguitata in cui il “pane quotidiano” è inconcepibile da solo senza Cristo e senza i fratelli e le sorelle nella fede, in particolare i poveri: non “io”, o “la mia parentela”, ma “noi”; non “la mia comunione”, ma il “pane-corpo” di Cristo nel suo “corpo-chiesa”; non il “pane-garantito” dalle ricchezze accumulate, ma il pane luogo di amore: di noi per gli altri e di Dio per noi. Perfino la giusta preoccupazione per i propri cari deve aiutare a non accontentarli sempre, ma ad aprire le loro coscienze al legame che tiene insieme tutta l’umanità, come rivela o conferma il Padre, che è appunto “nostro”.
don Giuseppe Toffanello, direttore spirituale della comunità vocazionale Casa Sant’Andrea