THE QUIET GIRL
di Colm Bairéad
drammatico, 95min
The Quiet Girl, debutto alla regia di Colm Bairéad, classe 1981, è ambientato proprio nell’Irlanda rurale dei primi anni ‘80 e racconta la storia di Cáit (Catherine Clinch), nove anni, taciturna e riservata, con una famiglia problematica alle spalle. La madre aspetta un bambino, il quinto, e il padre sperpera in scommesse quasi tutto ciò che guadagna. La tensione tra i due è palpabile e, per di più, la bambina non può contare neppure sull’appoggio delle sorelle maggiori, con le quali non ha la minima confidenza. I genitori decidono di allontanarla per un po’ facendole trascorrere l’estate presso dei lontani parenti, una coppia di mezza età, Seán e Eibhlín Kinsella (Andrew Bennett e Carrie Crowley). Cáit non li ha mai visti. Il padre l’accompagna e la lascia lì, dopo un breve saluto, con solo il vestito che indossa. Eibhlín da subito l’accoglie circondandola di affetto e premure e così tra le due si stabilisce presto un buon legame. Seán è più schivo, ma con il tempo anche il rapporto con lui migliora. Cáit si sente più sicura e comincia piano piano ad aprirsi, finché una vicina malevola e ficcanaso non le rivela che i Kinsella le hanno nascosto qualcosa. Candidato al Premio Oscar 2023 nella categoria Miglior film internazionale The Quiet Girl è tratto da un racconto breve della scrittrice Claire Keegan, pubblicato nel 2009 sul New Yorker e diventato in seguito un romanzo: Foster. È un delicato e poetico racconto di formazione; l’apertura agli altri e al futuro di Cáit, grazie all’incontro con la dolce Eibhlín, segnata dal dolore eppure capace di donarle affetto e attenzione come una madre e con Seán, un solido contadino che dietro i modi spicci nasconde un animo sensibile, che diventerà in breve il punto di riferimento, il “padre” che si prende cura, che incoraggia e rimprovera se necessario: quello che Cáit non ha mai avuto. Un film essenziale, sobrio, poetico e commovente ben governato dal regista Colm Bairéad, senza sbavature “zuccherose” e, soprattutto, impreziosito da interpreti generosi, la protagonista in primis, una straordinaria Catherine Clinch. Sobrio nelle parole il film è un’immersione nei colori della campagna irlandese, nei ritmi lenti e abitudinari della vita contadina, ma è anche sapientemente disseminato di piccole incongruenze, segnali che agganciano lo spettatore e lo accompagnano alla scoperta del doloroso “segreto” dei Kinsella, nascosto per pudore, per un’innata ritrosia, per rispetto. Una scoperta che avrebbe potuto spezzare il legame che hanno saputo costruire con Cáit e che, invece, lo fortifica. Dal punto di vista pastorale “The Quiet Girl” è consigliabile, poetico e adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).
UNA VOCE FUORI DAL CORO
di Yohan Manca
drammatico, 108min
Presentato al 74° Festival di Cannes (2021) e poi al Festival di Giffoni, dove ha vinto il Gryphon Award come Miglior film in Generator +13, Una voce fuori dal coro (“La Traviata, My Brothers and I”), primo lungometraggio del regista francese Yohan Manca, racconta la storia del quattordicenne Nour (Maël Rouim-Bernardo) che vive con tre fratelli nel quartiere popolare di Sète, un’assolata località balneare nel Sud della Francia. I quattro “custodiscono” la madre (araba) che giace in coma attaccata alle macchine e che loro hanno voluto a tutti i costi tenere in casa, rifiutando sempre l’idea di “lasciarla” in ospedale. Ma le cure costano: il padre (muratore italiano che cantava arie di opere liriche alla moglie) è morto da tempo e la famiglia tira avanti come può con lavoretti al limite della legalità (il più delle volte oltre il limite). Abel, che più di tutti avverte il peso e le responsabilità del ruolo di fratello maggiore; Mo, scanzonato e vanesio e Hedi, insofferente e suscettibile, decidono che è arrivato il momento che anche il piccolo Nour contribuisca al ménage familiare, magari facendo consegne per una pizzeria. Quando il ragazzo conosce Sarah, insegnante di canto lirico che lo coinvolge nelle sue lezioni, la passione per la musica lirica, l’incanto per la voce di Luciano Pavarotti, esplodono, insieme al suo talento. Per Nour potrebbe aprirsi un orizzonte di vita completamente diverso. «Il film – dichiara il regista Yohan Manca – è liberamente adattato da un’opera teatrale di Hédi Tillette de Clermont-Tonnerre, che ho portato in scena e recitato quando avevo 17 anni. È composto da quattro monologhi, recitati da quattro fratelli e racconta l’incontro del più giovane con l’arte, contro ogni previsione. E questa esperienza mi è molto familiare perché è ciò che io stesso ho vissuto. Ho messo molti ricordi personali in questo film, della mia giovinezza, della mia infanzia. Mi sono infatuato di un’aria da “L’elisir d’amore” di Gaetano Donizetti intitolata “Una furtiva lacrima”. Quando ho deciso quale fosse la vocazione di Nour, ho pensato subito all’opera, mi è sembrata una scelta naturale». Una voce fuori dal coro è un classico racconto di maturazione, ma ha dalla sua alcuni elementi di originalità. Primo tra tutti l’idea, coraggiosa e insolita, di accostare le banlieue francesi all’opera lirica e poi la stessa ambientazione: non la grande e dispersiva capitale, ma le lunghe e assolate giornate in una tranquilla città di provincia. Certo non tutto gira perfettamente tra qualche ingenuità e un epilogo dal sapore fiabesco, ma i temi ci sono tutti: la solitudine, la voglia di riscatto, la fatica di vivere, la forza e l’importanza dei legami familiari. “Una voce fuori dal coro” è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).
IL PATTO DEL SILENZIO
di Laura Wandel
drammatico, 89min
Scritto e diretto da Laura Wandel, belga, classe 1984, al suo primo lungometraggio, Il patto del silenzio. Playground, è un film di denuncia sociale sul fenomeno del bullismo. La storia. Primo giorno di scuola per Nora. La piccola frequenta lo stesso istituto del fratello maggiore, Abel. Quando, per caso, assistente a un atto di bullismo proprio nei confronti del fratello, la bambina cerca di attirare l’attenzione degli insegnanti e del padre perché si rendano conto di cosa sta accadendo. Ma Abel le chiede di tacere, perché ha paura di subire ritorsioni ancora più pesanti. Nora soffre moltissimo la situazione, anche perché gli episodi di violenza si moltiplicano. La bambina si chiude sempre più in se stessa e, quando la situazione viene alla luce, Nora, emarginata dalle sue compagne, finisce per allontanarsi dal fratello, in un certo senso quasi a “rinnegarlo”. Qualche tempo dopo scopre che Abel è diventato a sua volta un bullo che ha preso di mira un altro ragazzino sul quale si accanisce con insospettata violenza. Sarà proprio Nora, abbracciandolo forte, in un legame ritrovato, a fermarlo a un passo dal compiere un gesto irreparabile. La cronaca, pressoché quotidianamente, ci mette di fronte a episodi di violenza gratuita, sopraffazione e umiliazione nelle scuole, nelle palestre, nei centri ricreativi, nei più vari ambienti di vita. Per non parlare del cosiddetto cyberbullismo. E l’età delle vittime, e dei persecutori, scende sempre di più. Questo film è un faro acceso. Girato tutto ad altezza di bambino, (quindi dal suo punto di vista) e sostenuto da due interpreti eccezionali – Maya Vanderbeque nel ruolo di Nora e Günter Duret in quello di Abel – Il patto del silenzio. Playground si rivolge in modo particolare agli adulti e li richiama alla responsabilità: genitori, educatori dove siete? Perché non capite? Perché non intervenite? Certo, il film sembra abbracciare totalmente la tesi per cui una vittima di bullismo è “destinato” a diventare a sua volta un carnefice. La violenza subita, in vero, può generare comportamenti violenti verso gli altri, ma anche atti di autolesionismo, chiusura oppure regressione. Il legame tra fratello e sorella (e il riscoprirci “Fratelli tutti”) può essere l’unico antidoto all’odio, l’unica salvezza. Il patto del silenzio. Playground è consigliabile, problematico, adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).