TORI E LOKITA
di Jean Pierre e Luc Dardenne
Drammatico, 1h 28min
Jean Pierre e Luc Dardenne continuano a presidiare la condizione degli invisibili e inascoltati. Il loro è un cinema di “servizio pubblico”, pronto a cogliere storture e fratture sociali. È così anche con “Tori e Lokita”, uno sguardo livido e candido sulla condizione dei “minorenni non accompagnati”, migranti africani che scompaiono nel silenzio assordante di un’Europa fin troppo distratta. La storia. Belgio oggi, Lokita (Joely Mbundu) e Tori (Pablo Schils) sono due migranti africani ospitati temporaneamente in un centro di accoglienza. Lokita è una sedicenne del Camerun, Tori un preadolescente del Benin; non sono fratelli, ma le avversità sperimentate nella traversata della speranza, nella morsa della malavita, li ha uniti quasi come una famiglia. In attesa dei documenti per cominciare una nuova esistenza, Tori e Lokita si guadagnano da vivere al soldo di uno spregiudicato cuoco che li sfrutta nel traffico di stupefacenti… «Non si tratta solo di essere presenti l’uno per l’altro, di aiutarsi a vicenda. Si tratta anche di non poter stare l’uno senza l’altro, di amarsi come fratello e sorella, di formare una famiglia per non rimanere soli nel buio con i propri incubi». Le parole dei Dardenne ben traducono il pathos che si sperimenta nella visione di “Tori e Lokita”: ci si trova dinanzi al peregrinare di due innocenti che hanno però sulle spalle pesi gravosi, da adulti. A loro non è stato risparmiato nulla: violenze, umiliazioni, sfruttamento, frode e inganno. Il mondo dei grandi sembra avergli voltato le spalle. Ma Tori e Lokita non si abbandonano allo sconforto, non si lasciano andare allo smarrimento; al contrario, si sostengono, si abbracciano, si fanno forza e vanno avanti aggrappandosi a quella flebile fiamma di speranza che arde nonostante tutto. Picchiano duro i Dardenne, come sempre, ma con efficacia. Allargano, infatti, il campo dello sguardo inquadrando chi è disperato, chi vive sul crinale della sofferenza, cui spesso la società occidentale si rivolge con superficialità. Un cinema di denuncia, che intercetta temi e valori condivisi. Le loro istanze sembrano sintonizzarsi alla perfezione sul magistero di papa Francesco, su quella “Chiesa ospedale da campo”. Seppure lo sfondo sociale e antropologico che i Dardenne tratteggiano risulta crudo e disperante, il loro cinema si fa portavoce anche di dolcezza, quello sguardo degli innocenti, che nonostante siano impantanati nel male cercano di discostarsene. Tori e Lokita, grazie alla tenerezza condivisa s’immunizzano dalla disperazione, dallo scivolare nella vertigine del male. Resistono, o almeno ci provano. Dolente e bruciante, il film dei fratelli Dardenne, un’opera che coinvolge e un poco sconvolge, che di certo andrebbe fatta vedere nelle scuole superiori. Consigliabile, problematico, per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).