KREUZWEG – LE STAZIONI DELLA FEDE
Dietrich Bruggemann
drammatico, 107min
Germania, oggi. Maria, 14 anni, è con altri coetanei nel gruppo che segue le lezioni di un sacerdote appartenente alla Fraternità di San Paolo. Gli insegnamenti seguono la logica di una severità coerente e assoluta, preludio a un atteggiamento di totale adesione alla Parola di Dio, che Maria ritrova anche quando torna a casa. La vita in famiglia è dettata soprattutto dalla severità della mamma, che sprona la figlia a non derogare mai dai precetti appresi in parrocchia, e le trasmette la sensazione della colpa a ogni minima distrazione. Divisa tra le richieste della mamma e le attese del sacerdote, Maria si avvia verso una sorta di cammino di sacrificio che la porta a rinunciare a se stessa pur di non diventare una presenza ingombrante per quelli che la circondano.
Dietrich Bruggemann è nato a Monaco di Baviera nel 1976. Dopo numerosi cortometraggi, ha esordito con alcuni titoli (2006-2010) presentati in vari festival in Germania e all’estero, sceneggiati insieme alla sorella Anna. Con lei ha scritto anche questo “Kreuzweg – Le stazioni della fede”. Si tratta di un copione tanto lineare nello svolgimento narrativo quanto affascinante nella messa in scena. Inserito nel cartellone ufficiale della Berlinale 2014, il film vi ha ottenuto due premi: Orso d’argento per la migliore sceneggiatura, Premio della Giuria Ecumenica. Due premi da condividere totalmente. Il testo, innanzitutto. La progressiva parabola di sacrificio alla quale Maria si lascia andare è affidata da Bruggemann a una scansione lenta e implacabile strutturata sulla “ripetizione” delle 14 stazioni del Calvario di Gesù. Ingenua, indifesa e animata da forte spirito di competizione, Maria confida la propria ansia di “servire” Dio, non riceve le risposte opportune e si lascia andare a una lenta consunzione. La materia forte e drammatica è vissuta attraverso il filtro di uno sguardo lucido e severo. La macchina da presa, mentre tiene ferma l’inquadratura, crea in realtà le premesse per una dialettica aspra e lucida. Una struttura narrativa coraggiosa e spiazzante, quasi il ritorno a un cinema delle origini, che non ha bisogno di voce per “parlare”. Sono sufficienti le immagini a dire dolori, forzature, difficoltà, a denunciare senza essere cattivi, a farsi strumento non di ulteriore incomprensione ma di dialogo, di appello alla riconciliazione. Da qui allora le premesse per il premio della Giuria ecumenica: segno di una condivisione di valori, della ricerca di un cammino comune. Film dai notevoli risvolti visionari che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come complesso, problematico e da affidare a dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).
LA RELIGIOSA
Guillame Nicloux
drammatico, 114min
Francia, 1700. Costretta dalla famiglia a prendere i voti, la 16enne Suzanne entra in convento e comincia ad avere aspri confronti con la madre superiore e la gerarchia ecclesiastica. Subisce abusi e torture ma resta salda nel proprio obiettivo di conquistare maggior giustizia e libertà.
L’omonimo romanzo di Denis Diderot si è conquistato il ruolo di esponente esemplare di quella “razionalità” che nel 1700 voleva sostituire spiritualità e misticismo. Ne è prova la prima versione, diretta da Jacques Rivette nel 1966, destinata a diventare emblema delle imminente rivoluzioni portate dallo spirito del ‘68. Sopiti molti di quegli entusiasmi, forse questa versione di oggi è da guardare con maggior distacco, potendo apprezzarne di più l’intensità, l’asciuttezza delle immagini, la drammaticità severa, divisa tra realtà e metafora. Con un’attrice di forte intensità nel ruolo principale, il copione restituisce i fremiti e le paure di un periodo storico lontano, senza scacciare i pur flebili punti di contatto con alcune realtà a noi contemporanee. Un approccio asciutto e ben controllato per un film che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).
CHE DIO CI AIUTI
Serie TV
Don Camillo più che mai. Tutte le volte ci siamo occupati della serie Rai-Lux Vide “Che Dio ci aiuti” (in onda dal 2011) abbiamo tracciato i (non pochi) punti di contatto tra il personaggio di suor Angela con quello di don Camillo, uscito dalla penna di Giovannino Guareschi e reso memorabile al cinema da Fernandel. Suor Angela, nel suo agire, segue il tracciato del prete di strada, anzi di campagna, di Brescello: è sempre in prima linea per emergenze e ingiustizie, si abbandona a dialoghi-monologhi (spassosi o commoventi) con il crocifisso, e pur di far del bene non esita a compiere qualche scorrettezza; è appassionata della vita, non è perfetta, al contrario, ma si dedica al prossimo con premura. Questo tratto rende il personaggio di suor Angela così riuscito, profondamente umano e attuale, che Elena Sofia Ricci cesella mettendo in campo grande ironia e densità emotiva. Le sfide di suor Angela. Si rimescolano le carte narrative per “Che Dio ci aiuti 6”. Anzitutto il convento degli Angeli si sposta ad Assisi. Alla guida ci sono sempre suor Angela e suor Costanza, Azzurra, pronta a prendere il velo.
Vale sempre la pena vedere “Che Dio ci aiuti”, perché è una serie sì problematica per i temi in campo, ma dallo sguardo comunque fiducioso. Il binario è lo stesso di “Don Matteo”, ossia raccontare la realtà con le sue sfumature, dispersioni comprese, virando lo sguardo verso un orizzonte di speranza. In “Che Dio ci aiuti” al centro del racconto ci sono per lo più storie di giovani donne e uomini, tra i venti e i trent’anni, in cerca di un posto nella vita e per lo più chiamati a riconciliarsi con un passato irrisolto. Suor Angela e suor Costanza sono come una casa accogliente, un porto sicuro, per ciascuno di loro; uno spazio del cuore dove trovare conforto, ascolto e voglia di ripartire, di tornare a “sporcarsi con la vita”. In suor Angela c’è una religiosità pulsante, accogliente, non una carità pelosa, di circostanza; è accanto agli ultimi, espressione bella di una Chiesa in uscita. Al di là di questi indubbi punti di valore, che danno forza e carattere alla serie tv, occorre registrare però in alcuni passaggi delle debolezze narrative, dei raccordi un po’ discontinui o frettolosi che non lasciano decollare pienamente il racconto. Detto questo, “Che Dio ci aiuti” è un prodotto che fa bene, che ristora, soprattutto in tempi così incerti e difficili (articolo tratto dal sito www.cnvf.it).