STILL ALICE
di Richard Glatzer, Wash Westmoreland
drammatico, 99′
Felicemente sposata e madre di tre figli (due femmine e un maschio, tutti grandi), Alice Howland è una rinomata docente di linguistica. Un giorno, durante una lezione universitaria, accusa qualche passaggio di vuoto e di dimenticanza, ai quali sul momento dà poca importanza. Sono invece i primi sintomi dell’Alzheimer, che si manifesta in forma precoce ma è destinato ad aumentare. Da quel momento per Alice comincia u’esistenza del tutto nuova. Per lei e per la sua famiglia. Lavoro, rapporti, sentimenti: tutto va filtrato dentro la nuova realtà. Si apre uno scenario, dentro il quale Alice è chiamata a gestire se stessa e a vivere la “malattia” senza subirla…
Wash Westmoreland riferisce che nel dicembre 2011 lui e Richard ricevettero una telefonata in cui due produttori li invitavano a dare un’occhiata al romanzo Still Alice scritto da Lisa Genova. Il tema (una forma precoce di Alzheimer) spaventava non poco, ma all’inizio di quell’anno Richard, dal neurologo che lo aveva visitato in seguito ad alcune difficoltà nel parlare, si era sentito dire: «credo sia SLA». Da quel momento l’approccio con il libro è stato più forte e intenso, sfociando nella conseguente sceneggiatura e nella presenza di Julianne Moore nel ruolo della protagonista. Il rapporto tra cinema e malattia è, come si sa, complicato e contraddittorio. Si può affidare a un attore il compito di infondere verità a una finzione; oppure si può prendere qualcuno veramente malato e farlo “recitare”. In entrambi i casi si rischia l’artificioso, il patetico, il convenzionale. Oppure arriva la prestazione d’alta scuola. Bisogna dire che, nel ruolo di Alice, Julianne Moore restituisce il dramma con asciuttezza e semplicità esemplari. Nessuna retorica, né sbavatura né pietismi. Il copione compone una cornice dentro la quale ogni componente trova la giusta collocazione: la madre, il marito, i tre figli, la casa, la professione procedono insieme a rabbia, stupore, impreparazione, rassegnazione, reazione scomposta. In un coacervo di sentimenti, Alice sfiora l’idea di porre fine alla propria vita: gesto che viene scavalcato di fronte all’immagine dei familiari. Il racconto ha una compattezza di immediata presa, senza urlare, strepitare, denunciare, facendo appello alla necessità di tenere alto il livello di dignità, umanità, capacità di credere nel valore comunque della vita. Un esempio di serietà narrativa che non fa appello a ricatti o a lacrimose richieste di coinvolgimento. Ne esce un film che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione valutazione film della CEI).
LA TEORIA DEL TUTTO
di James Marsh
drammatico, 123’
Nel 1963 il ventunenne Stephen Hawking è tra gli studenti più promettenti in cosmologia dell’Università di Cambridge, grazie alla sue ricerche miranti a trovare una spiegazione sul funzionamento dell’universo. Nello stesso anno, sempre a Cambridge, incontra Jane Wilde, studentessa come lui e tra loro nasce una relazione destinata a durare a lungo: anche quando, non molto tempo dopo, a Stephen viene diagnosticato un malfunzionamento dei neuroni motori che lo costringerà a vivere su una sedia a rotelle. Gli studi compiuti, i libri pubblicati lo rendono famoso in tutto il mondo. Quando Stephen arriva negli USA per una conferenza, al suo fianco c’è una nuova donna/segretaria: il rapporto con Jan si è esaurito, e tuttavia lui ripete, attraverso gli strumenti meccanici di cui dispone: «per quanto la vita possa sembrare difficile, dove c’è vita c’è speranza».
Stephane Hawking nasce ad Oxford l’8 gennaio 1942. A fianco della malattia che negli anni lo costringe a un progressivo e quasi totale immobilismo, ci sono i suoi studi, che non si interrompono e che gli permettono di essere titolare della cattedra di matematica a Cambridge nel trentennio 1979-2009. Partendo dunque da dati di cronaca autentici, il copione ricostruisce le fasi di un’esistenza unica e faticosa, l’esistenza quotidiana di un uomo che vive una vita indecifrabile e inaccessibile, sospesa tra realtà e altri mondi. Nella sua capacità di restare attaccato alla Terra e di far volare la mente lungo altri percorsi, Hawking testimonia il proprio muoversi in un territorio riarso e misterioso, dove la vita finisce si rigenera di continuo. Una dimensione confusamente spirituale, al vaglio di eventi tipicamente “umani” come la famiglia, i figli, una seconda moglie. Il film ricostruisce questa biografia, affidandosi all’encomiabile interpretazione di Eddie Redmayne nel ruolo principale, e mettendo intorno una cornice pulita e misurata di taglio anglosassone. Tutto funziona, anche l’inevitabile ricatto consolatorio per lo spettatore.
Il film, dal punto di vista pastorale, è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione valutazione film della CEI).