LAZZARO FELICE
di Alice Rohrwacher
durata: 2h 05min
Al festival di Cannes 2018 il film ha ricevuto il Premio per la migliore sceneggiatura. La storia prende il via in una grande piantagione di tabacco, di proprietà della marchesa Alfonsina de Luna, dove 54 contadini lavorano notte e giorno secondo un calendario immutabile bloccato su compiti e ritmi. Tra questi contadini (anziani, giovani, adolescenti, bambini) si muove anche Lazzaro, un ventenne che non conosce i genitori eppure lavora con gioia e il sorriso sulle labbra. La parabola di Lazzaro, che muore e risorge ed è sempre pronto al sacrificio per gli altri, ha un’indubbia valenza di forte carica religiosa. Lazzaro, che non ha una precisa identità, assume su di sé tutto il male che può essere ereditato, tutta la cattiveria che l’uomo infligge ad altri esseri umani, e lo porta con se fino a destinarlo alla condivisione universale. Si tratta di un atteggiamento che porta la regista sulle orme del grande cinema umanista degli anni ’50 e ’60. Torna a mente il Rossellini dei film del secondo dopoguerra, gli straziati apologhi di Stromboli, i freddi teoremi di Viaggio in Italia. Ma forse è a Ermanno Olmi, anche per età e generazione, che il cinema della Rohrwacher si richiama. In quella dolente, ruvida sequenza nella chiesa quando una suora si rifiuta di accogliere i poveri senza un’identità. Citazione, o forse omaggio, e non banale ma palpitante e attuale, al Villaggio di cartone di olmiana memoria. Lazzaro felice è un film che sprigiona e trasmette ottimismo, partendo dal buio, dalla privazione, dalla sottrazione. Sta con gli ultimi, e non per convenienza ma perché lo chiedono la pietà, la ragione, la giustizia. Il film, dal punto di vista pastorale, è da valutare come raccomandabile, problematico e adatto per dibattiti (a cura della Commissione nazionale valutazione film CEI).