Liberamente costretto a fermarmi dalla situazione contestuale che tutti conosciamo, ho colto l’occasione di rispondere a un invito: esprimere percezioni e intuizioni a partire da un testo tutt’altro che scontato e che nemmeno il titolo poteva fare sospettare per tanta profondità e apertura di visione. Di fronte a una divaricazione sempre più ampia tra comunità cristiana e società postmoderna – impressione che può confermare chi lavora in prima linea – la prima considerazione che balza alla mente è superare la tentazione di una lettura pessimistico-apocalittica che sbanda tra il ricordo nostalgico del passato (regime di cristianità) giocando in difesa o attaccando un soggettivismo individualista ormai svincolato da ogni riferimento comunitario e istituzionale.
Di fronte a questa cultura nuova che arriva come un’onda tsunamica e che trova nel connubio tecnologia e scienza il nodo di forza per affermare le sue promesse di benessere, prosperità (di immortalità?), anche il discorso su Dio sembra dissolversi e l’affermazione di una salvezza trascendente un tema irrilevante. Siamo arrivati al tramonto del cristianesimo? La chiesa e il suo messaggio non è più plausibile per l’uomo del nostro tempo? Che fare? Il patrimonio della rivelazione e dell’esperienza storica della fede cristiana – secondo il testo – ha risorse per affrontare anche l’oggi dominato dalla ragione tecnica e analitica poco attenta a una visione di insieme capace di uno sguardo che sa dare “senso” alla vita dell’uomo, una vita fatta di connessioni, di desideri e di affetti. L’astrazione e la frammentazione ha impedito un progetto umano nel quale il “concreto vivente” (l’uomo) potesse realizzare se stesso dentro un vissuto di relazioni che guarda caso sono andate in crisi: la famiglia, gli spazi comunitari, gli ambienti sociali di incontro e di scambio. In questo nuovo contesto antropologico la Chiesa cos’ha da dire e da dare?
Anzitutto una scelta di fondo, come del resto in tanti altri tornanti difficili e promettenti della storia: la chiesa “nel” mondo (cfr. GS), il coraggio audace di stare dentro la realtà senza fughe (indietro o in avanti), alla stregua di tante inculturazioni realizzate nella storia e soprattutto del modello fondante dell’Incarnazione di Gesù Cristo. Un’opzione che porta con sé un grappolo di scelte molto concrete, che aprono un cammino, che fanno crescere, che tengono insieme la vita, dove “le parti non sono pezzi” (R. Guardini). Anzitutto un atteggiamento di apertura (porta usb) fatta di predisposizione positiva che permette un’effettiva comprensione della complessa realtà attuale, un “dialogo dialogico” direbbe Panikkar, non di contrapposizione dialettica che ancora una volta separa e divide ma un atteggiamento profondamente “simbolico”, che sa unire, mettere insieme, come del resto è nel dna della nostra fede, dagli inizi.
Una seconda forte sollecitazione la trovo nel coniugare fede e libertà, di fronte a un sentire comune la proposta cristiana come imposizione e obbligo, o per lo meno come trasmissione di contenuti dottrinali incapaci di intercettare i desideri e le attese dell’umanità del nostro tempo. La libertà, “figlia” del pensiero cristiano che ha forgiato la cultura europea occidentale sembra essere scappata di casa. Sento qui l’invito a operare scelte pastorali nuove che aiutino a riscoprire una fede degna di fiducia, – “fede come affidamento” direbbero i nostri autori – un’adesione che nasce da un atto di libertà, risposta a una testimonianza convincente, perché “esperienza che parla”.
Partendo sempre dalla realtà del vissuto e per superare possibili derive di fredda indifferenza (dei “gaudenti senza cuore”) e di presunzione umana di chi pensa di poter costruire il proprio presente e futuro da soli (“specialisti senza spirito”) vengono indicati due confini da abitare: il primo è quello dello scarto, riconoscendo che l’altro, sempre necessario, ci salva, ci libera “da noi stessi”; il secondo è quello del mistero, che aiuta ad ascoltare l’insopprimibile “mancanza” presente nel cuore dell’essere umano e chiede di “tener vivo il fuoco della preghiera”, intesa come spazio che alimenta l’eccedenza dell’uomo vissuta in termini di trascendenza e non di illusoria immanenza, mai capace di colmare la sua sete di infinito.
Infine uno “sguardo cattolico”, che va ben oltre un’interpretazione riduttiva in termini identitari, peggio ancora se compresa come una parte in contrapposizione ad altri. Il senso etimologico del termine è illuminante: “katà olon”, secondo il tutto, che invita a tornare all’intero, a una visione che va oltre ogni dualismo divisorio e che salva la vita, la mette insieme, fa incontrare gli opposti, apre e favorisce legami, costruisce relazioni, scopre connessioni, evidenzia intrecci. Ecco il nostro “compito cattolico” in una società gassosa e dispersa, frantumata e dis-integrata (siamo già oltre la liquidità di Bauman), che ha bisogno più che mai della “concretezza” del cristianesimo per “salvare”, mettere al sicuro l’intera vita dell’uomo in tutte le sue dimensioni.
don Giuseppe Alberti, parroco moderatore dell’unità pastorale di Villafranca Padovana