L’invito alla gioia, anzi, all’esultanza, è la nota con cui papa Francesco dà avvio alla sua esortazione alla santità. Anzi, alla «chiamata alla santità nel mondo contemporaneo». A dire il vero, solo a soffermarci sul titolo del documento ci sarebbe da dire già molto; vorrei dunque riprendere alcune parole chiave, a partire dalla fine.
Nel mondo contemporaneo: non è solo un’indicazione cronologica, o sociologica. Mi pare interessante che un tema “spirituale”, “teologico” come quello della santità abbia bisogno di essere compreso e apprezzato in collegamento con un “mondo”, con un “tempo”. Sì, perché non si diventa santi in astratto, quasi si dovesse prendere la forma di un modello prestabilito in anticipo. Si può divenire santi sempre e soltanto intrecciando la propria esistenza con la concretezza di un determinato tempo, con tutte le sue complessità da decifrare con pazienza. Il papa, scrivendo la sua esortazione, sa bene di collocarsi su una scia di altri testi che hanno cercato di arricchire la comprensione della santità; e tuttavia sente il bisogno di farlo ancora, perché vivere da santi è come portare a compimento un’opera d’arte: a ogni tempo, il suo stile; ad ogni epoca, il suo genio. Ripetere dei cliché senza fantasia è una strada che forse, sì, potrebbe anche farci diventare santi, ma santi… di gesso.
Chiamata: chiaro! Molto giustamente il sottotitolo del testo di papa Francesco non rinuncia a mettere in chiaro sin da subito che, caso mai ci venisse la voglia di diventare santi, non sarebbe ghiribizzo mentale di uno slancio passeggero, bensì risposta generosa a una chiamata di Dio. La santità si configura dunque come un “sì” generoso a una voce che ci invita a sognare, ad avere ideali alti, a non accontentarci di una vita piatta e di basso profilo. Non è da poco capire questo! Siamo spesso circondati, infatti, da messaggi che ci danno dell’umano un’idea strana: “più ti fai da te, meglio è”. Più si è capaci di “autorealizzarsi”, più si ha valore, più si è bravi. No, la santità cristiana funziona diversamente: non ci si può fare da soli, ma è cammino che si fa assieme, con il Signore che ci mostra il suo volto affidabile; e con i fratelli che incrociamo sulle vie del nostro quotidiano. Insomma: siamo ben lontani da un’idea di santità “chirurgica”, quasi si trattasse di cesellare in proprio un gioiello scintillante da esibire. No, nessuna esibizione, ma tanta relazione!
Esortazione: lo sappiamo, è il modo con cui vengono definiti alcuni documenti del papa. Però mi piace accogliere questo nome, “esortazione”, anche nel suo significato corrente, per noi. Un’esortazione non è un semplice consiglio, del tipo: “se ti pare il caso, ti consiglio questo o quest’altro”. Esortare è ben di più. Non è nemmeno un comando, un imperativo obbligante. Esortare è piuttosto sollecitare nell’altro un interesse per qualcosa che vale, che merita di essere raggiunto. E questo senza imposizioni piovute dall’alto. È dunque molto bello pensare che siamo chiamati alla santità con un’esortazione. Questo ci permette innanzitutto di riconoscere tutta la preziosità di ciò che ci viene richiesto; anche noi, infatti, quando esortiamo una persona a fare qualcosa è perché riteniamo che ci sia in gioco qualcosa di importante. Nel contempo si capisce bene che, quando si ha a che fare con la santità, occorre mettere in circolo tutta la nostra libertà di persone responsabili, capaci di scegliere. Una santità obbligata non esiste! Michelangelo non avrebbe mai scolpito per obbligo le sue pietà; eppure un “fuoco” interiore lo “esortava” a dare corpo alle sue strabilianti creazioni marmoree.
Infine la gioia: “Gaudete et exultate!”. Qui è facile da dire: una santità triste non esiste. Se è vero che la santità nasce dal Vangelo e che il Vangelo è lieta notizia, può esistere una santità triste? Musona? Lamentosa? No, non vi può essere un frutto incompatibile con la pianta; e dunque non vi può essere una santità diversa dalla pianta gioiosa che è il Vangelo. Forse siamo in molti a conoscere la celebre espressione attribuita a Leon Bloy: «Nella vita non c’è che una sola tristezza: quella di non essere santi». La frase è forse un po’ datata, ma ci fa capire una cosa interessante: non soltanto che la gioia è parente stretta della santità, ma che la santità è l’unica via della gioia. Sì, un po’ provocatoria questa espressione dell’autore francese! Eppure, se ci pensiamo bene, senza che andiamo a leggere tante vite di santi, le persone più gioiose, serene che abbiamo incontrato nella nostra vita molto probabilmente erano anche persone sante, vale a dire capaci di relazionarsi con gli altri in maniera mite, luminosa; capaci di dedicarsi con tenerezza a chi ha bisogno di cura; capaci di sperare anche nei momenti difficili perché amorosamente ancorate allo sguardo buono del Signore. Lasciamoci contagiare da questi santi che, senza dubbio, popolano ancora le strade del nostro tempo!
p. Antonio Ramina, docente Facoltà teologica del Triveneto