Era detta la Messa del fanciullo… uscì anche il Messale dei fanciulli – corredato dal suo Lezionario – era il 1976. Furono pubblicati contemporaneamente un Direttorio (del 1973 a cura dell’allora Sacra Congregazione per il Culto Divino) e un’Istruzione (del 1975 a cura della Conferenza episcopale italiana) – che certamente pochissimi lessero – la quale recitava così: «Celebrazione ideale è, secondo il Direttorio, la messa parrocchiale dei giorni domenicali e festivi, alla quale partecipano con gli adulti, e specialmente con i familiari, anche i fanciulli» (Istruzione, n. 1); poco oltre aggiungeva: «appare utile, e talvolta anche necessario, celebrare una messa per i soli fanciulli nel corso della settimana» (Istruzione, n. 2); inoltre «la messa per i fanciulli deve sostanzialmente rispettare l’ordinata struttura della celebrazione eucaristica» (Istruzione, n. 3).
Con il Messale dei fanciulli si avviava, subito dopo il Concilio Vaticano II, una prassi di pedagogia liturgica, capace di condurre i bambini non tanto ad avere una messa a loro misura, quanto a crescere – con l’aiuto di questo progetto mistagogico – nella capacità di decodificare e riconoscere l’azione di Cristo nella liturgia e nell’autentica partecipazione per mezzo dei riti e delle preghiere (cfr. SC 48). Fu così che venne proposto un vero e proprio progetto pedagogico, teologico e liturgico: a. uffici e ministeri nella celebrazione (Direttorio, n. 22-24); b. luogo e tempo della celebrazione (n. 25-28); c. preparazione della celebrazione (n. 29); d. il canto e la musica (n. 30-32); e. elementi visivi (n. 35-36); f. il silenzio (n. 37); g. le parti della messa (n. 38-39) e cioè: rito iniziale (n. 40), lettura e spiegazione della Parola di Dio (n. 41-49), le orazioni presidenziali (n. 50-52), le preghiere eucaristiche (Premesse alle Preghiere eucaristiche, n. 1-21), riti prima della comunione (n. 53), la comunione e i riti che l’accompagnano (n. 54-55).
Questo strumento di pedagogica liturgica non intendeva assolutamente prendere il posto della messa domenicale, ma piuttosto predisporre i bambini a celebrarla meglio, appropriandosi – nel corso di queste celebrazioni pensate con la loro presenza – degli elementi-segni più pertinenti al rito: lo stare nello spazio, le posture del corpo, il canto, la luce, gli atteggiamenti e i gesti rituali, le suppellettili, la varietà ministeri, il servizio dell’altare, il ruolo della Parola di Dio, il silenzio… Tutto ciò non venne pensato come una realtà per i bambini, detta con linguaggio da bambini, celebrata dai bambini! Si chiedeva, invece, di cogliere e accompagnare le dinamiche più profonde, presenti nell’agire liturgico in sé, e di riproporle in alcune liturgie con (non per!) i fanciulli, di modo che, adattandole alla capacità del fanciullo, il fanciullo stesso attivasse le dinamiche antropologiche fondamentali del rito che – va detto! – sono dell’uomo in quanto tale, non del bambino.
“Celebrare” allora significa: stare, incedere, genuflettere, alzarsi, sedersi, ascoltare, muovere lo sguardo, cantare, accogliere il silenzio, vedere le icone, levare la mani a Dio, accendere le candele, baciare il Libro dei Vangeli, stare vicino alla mamma, guardare il papà che genuflette, percepire il canto del parroco, ammirare il gesto del maestro del coro, accorgersi della soavità e della potenza dell’organo… tutto ciò secondo una dinamica rituale, religiosa, divina. L’azione liturgica parla al bambino non perché è diventata un gioco! Se fosse così certamente il bambino giocherebbe più volentieri al parco! Se lo spazio “di Dio” si riducesse a un “gioco religioso”, cesserebbe di esistere come “altro” dall’ordinario! Questo spazio rituale, invece, non è riconducibile a qualcosa di normale, di “già visto”, d’immediato, di “festoso” (quale genere di festa ha senso celebrare – e ha senso! – dinanzi all’Agnello immolato e glorificato?), di simpatico… Lo scopo non può essere, d’altronde, quello di portare i bambini a “star bene insieme”, o a “farli divertire”, a “coinvolgerli”, o a esclamare: “ora sì stanno attenti, Padre! Era ora!”. Se il rito facesse questo si pervertirebbe e morirebbe: il suo senso decadrebbe e, anziché mostrare – anche al bambino – l’agire invisibile di Cristo, sostituirebbe l’azione liturgica con un coinvolgente insegnamento religioso o con una esibizione scenografica. Le cadute in queste mistificazioni “giocose” del rito hanno generato, di conseguenza, una litania di equivoci: i bambini chiedono perdono (di un peccato che per gravità di materia non li riguarda né tantomeno per la piena avvertenza della mente e il deliberato consenso della volontà); leggono le letture (senza comprenderne ancora l’Autore); fanno dei canti (per non annoiarsi, o per far sentire ai genitori la canzone [sic !] di Natale); battono le mani (cosicché il frastuono fa compagnia e allontana la fatica del silenzio); corrono per la chiesa (perché Gesù ha detto è necessario diventare come i bambini…); salgono l’altare per fare girotondo al grido gioioso di un Padre nostro defraudato delle parole di Cristo e del suo divino insegnamento… Cominciammo con questo fraintendimento nel ’70… Oggi – dopo 50 anni – i bambini non vengono alle celebrazioni liturgiche, né tanto di più gli adulti o quelli che noi definiamo i giovani! La causa non è certamente la Messa dei fanciulli o i suoi presunti e mediocri pseudo-segni; la svolta decisiva da fare è un’altra: ricomprendere l’eucaristia come una realtà per gli adulti. Lui – l’adulto – deve saper riconoscere nelle azioni rituali l’opera di Cristo che si manifesta attraverso i suoi santi segni. Il tentativo con cui procedere non è quello di rimettere in gioco i “segni adatti ai bambini” ma quello, radicato nell’antropologia del rito, del “segno dell’adulto che celebra”… possibilmente avendo i propri figli accanto! Credo avremmo dovuto cominciare prima, adesso siamo in affanno! Lasciamo cadere la sinfonia del banale, e i segni “della nostra amicizia con Gesù”. «Non sarà dato alcun altro segno se non il segno Giona» (Mt 12, 29): è necessario ripartire da qui!
don Gianandrea Di Donna, Ufficio diocesano per la Liturgia