«Dio, il quale solo è santo e santificatore, ha voluto assumere degli uomini come soci e collaboratori, perché servano umilmente nell’opera di santificazione. Per questo i Presbiteri sono consacrati da Dio, mediante il Vescovo, in modo che, resi partecipi in maniera speciale del sacerdozio di Cristo, nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di colui che ininterrottamente esercita la sua funzione sacerdotale in favore nostro nella liturgia, per mezzo del suo Spirito. Essi infatti, con il battesimo, introducono gli uomini nel popolo di Dio; con il sacramento della penitenza riconciliano i peccatori con Dio e con la Chiesa; con l’olio degli infermi alleviano le sofferenze degli ammalati; e soprattutto con la celebrazione della Messa offrono sacramentalmente il sacrificio di Cristo».
(Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorum Ordinis, nr. 5).
Queste parole del Concilio Vaticano II ci aiutano a raccogliere alcune brevi riflessioni sul ministero presbiterale e la cosiddetta arte del celebrare, espressione che abitualmente viene riferita alla qualità celebrativa dei riti celebrati dai presbiteri. Ma mentre diciamo ciò, subito avvertiamo la necessità di chiarificare quanto affermiamo, onde evitare la deriva estetizzante che un discorso di questo tipo porta sempre con sé.
Si potrebbe pensare che l’arte del celebrare attribuita a un presbitero – proprio perché arte – abbia il semplice scopo di “applicare” alle celebrazioni liturgiche una veste di bellezza, nata dallo studio del bello e dall’indole estetica, più o meno coltivata, del presbitero stesso. Ne risulterebbe allora un’ars cœlebrandi come fosse una delle dotazioni che il presbitero possiede, un’attenzione raccomandabile ma, tutto sommato, abbastanza personale e legata alla sensibilità di ciascuno. Ne seguirebbero due diverse prospettive diverse.
Per alcuni si tratterebbe di far sì che le celebrazioni liturgiche legate al ministero presbiterale, abbiano una qualche dignità estetica; una sorta di presentabilità, di “minimo sindacale” della dignità del rito. Questo modo di intendere il ministero liturgico del presbitero (potremmo dirlo anche del vescovo e del diacono, ciascuno secondo il proprio grado) tende ad attribuire alla liturgia un’indole fortemente didattica; presiedere i riti significa “profittarne”, perché “mentre si fa quello che si deve fare”, possa giungere ai fedeli un messaggio evangelico chiaro e convincente; si tratta di un modello celebrativo che sente come connaturale la semplicità, la brevità, il testo recitato, le didascalie, le “riduzioni”, una certa scarsità di gesti e canti, l’evitare o il limitare al massimo l’uso di suppellettili, di vesti liturgiche, di immagini sacre, di fiori… questo presbitero — artista del rito – lo è quanto più spiega al popolo di Dio le celebrazioni, quanto più se ne serve come catechesi. Queste celebrazioni risultano molto inclini al discorsivo, sono recitate, partecipate “da seduti”; sono, per dirla con un’immagine, liturgie con il radiomicrofono in mano, muovendosi e spiegando… una sorta di carisma del presbitero; un’abilità con la quale egli “intrattiene” i fedeli e li educa alla fede.
L’altro modo di pensare all’ars cœlebrandi si sposta su sfere diametralmente opposte alle precedenti: il rito avrebbe bisogno di una grande operazione di ordine estetico; le cose devono essere fatte bene; il popolo di Dio vuole vedere esuberanza e sentirsi avvolto dalla grandiosità e dal fasto, espressione – si dice – della grandezza di Dio e della sua opera. Si tratta di un modello celebrativo che sente come connaturale la solennità, il testo cantato, l’uso preciso delle formule previste, una certa abbondanza di gesti e canti, l’uso continuo di nuove suppellettili, di vesti liturgiche, di molte immagini sacre, di molti fiori… questo presbitero – artista del rito – lo è quanto più dà al popolo di Dio celebrazioni sontuose ed esuberanti. Queste celebrazioni risultano molto inclini al silenzio del popolo di Dio, sono cantate da cori polifonici, per dirla con un’espressione popolare sono delle “bellissime cerimonie”…
In questa prospettiva, come nella precedente, sembra esserci una sfocatura; l’arte del celebrare cioè si appiattisce – nella versione “radiomicrofono in mano” come in quella del “solennissimo cerimoniale” – sul presbitero, come detentore di un carisma di animazione ed educazione alla fede del popolo di Dio. La presunta bellezza del rito riguarda solo lui: sia che egli prediliga una liturgia didascalica, catechetica, scevra da ritualità, come se egli elargisca riti pieni di tripudio e di abiti suntuosi…
L’arte del celebrare, in realtà, non riguarda i soli presbiteri ma anzitutto la Chiesa nella sua varietà di carismi e ministeri; non dobbiamo mai dimenticare che
«la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (Costituzione sulla sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, nr. 7).
Se la liturgia cristiana è guidata da un’autentica arte del celebrare, i presbiteri dovranno far sì che i riti non siano una vana ricerca funzionalista e strumentale di catechesi né una ricerca baroccheggiante di cerimoniali avulsi dalla vita. Lo splendore dei riti cui i presbiteri – come pastori – sono chiamati a tendere è epifania del mistero di Cristo che agisce, opera nella Liturgia. Per questo il popolo santo di Dio con il vescovo, i presbiteri e i diaconi, i cantori e i salmisti, i lettori, gli accoliti e i ministranti, le vesti liturgiche e le suppellettili, le sacre icone e gli arredi, lo spazio sacro, il silenzio e il canto, le processioni e i gesti, la celebrazione della Parola di Dio, la preghiera eucaristia e qualunque altro dei numerosissimi elementi che fanno la liturgia cristiana, sono come una sinfonia chiamata a generare l’actio rituale, cioè a mostrare l’azione salvifica di Cristo crocifisso e risorto. Si comprende allora come sia necessaria un’ars cœlebrandi perché essa generi comunione tra le parti e orienti la bellezza a un fine di fede e di amore, strappandola da derive estetizzanti o didatticistiche.
Ci viene in soccorso l’espressione più volte ribadita nei testi del Concilio Vaticano II secondo i quali la liturgia deve essere caratterizzata da nobile semplicità, indicando con questa espressione come la forza del rito – se nobile e semplice allo stesso tempo – conduce gli uomini a Dio.
don Gianandrea Di Donna
Ufficio per la Liturgia