C’è stato un tempo, in cui la fede si trasmetteva quasi automaticamente. Nascere e diventare cristiano andavano di pari passo. Si imparava a credere come si imparava a vivere. Si diventava cristiani nel momento in cui si succhiava per la prima volta il latte della propria madre. Oggi, invece, anche a motivo dello sviluppo culturale della società, in particolare quella europea, l’adesione di fede passa attraverso un’esigenza di libertà e di intelligenza. Non si nasce cristiani, lo si diventa, anche se permane, da parte di molti, la richiesta dei sacramenti che iniziano alla vita cristiana. Si diventa cristiani sempre più, per un’adesione personale e quindi necessariamente attraverso un dibattito con se stessi e con altri, passando attraverso il dubbio, soppesando gli argomenti pro e gli argomenti contro. In questo senso, oggi più che mai la fede è una questione di “convinzione”. E come dice l’etimologia della parola, la convinzione è una “vittoria”: una vittoria che si acquisisce nel confronto, nella ricerca personale, lungo un cammino fatto di incontri e di esperienze che fa superare un insieme di dubbi e di resistenze. Se tutto questo lo possiamo constatare incontrando gli adulti, la cosa è ancora più evidente nei giovani. Infatti stando insieme a loro ci si accorge come la fede risulti davvero una “vittoria”, un traguardo che viene conquistato non perché si è frequentato anni di catechismo o perché si sono ricevuti tutti i sacramenti, ma solo perché si è compiuto un cammino di ricerca, si sono fatte esperienze profonde capaci di toccare i vari livelli della persona, e perché si sono incontrati adulti credibili che sanno testimoniare la fede non a parole, ma con la vita.
Così l’educazione alla fede dei giovani ha bisogno di tenere conto delle loro domande, da ascoltare, accogliere, intuire, far emergere, in esperienze di dialogo di cui il Vangelo è un “manuale” insuperato. Le domande nella coscienza dei giovani sono presenti, sono numerose e alle volte inquietanti. Occorre essere disposti a partire da esse e a interagire sulle questioni che pongono. Ad un modello di pastorale tutto orientato a comunicare una visione della vita o a proporre una serie di impegni, andrebbe oggi sostituito, un modello impostato sulla relazione autentica e sul dialogo: un dialogo vero, che è scambio, ascolto profondo, personalizzazione dell’annuncio e accompagnamento a collocare le ragioni della fede dentro a percorsi personali, e irripetibili.
Siamo abituati a dire che i giovani sono il nostro futuro, e in parte è vero, ma mai come nel caso della fede, il futuro dipende dal passato e dal presente cioè dal modo con cui gli adulti vivono la loro esperienza cristiana e da come la comunità interpretano il loro compito di evangelizzazione. È dunque fondamentale che gli adulti sappiano mettere nel cuore dei giovani l’essenziale, insieme a una passione che dia desiderio e la volontà di reinterpretarlo per il loro tempo e nel loro tempo.
La Chiesa, se non vuole perdere i giovani, deve riscoprire il valore delle relazioni che fanno sentire importanti, che generano interesse per le esperienze perché passano attraverso le persone, i legami, la valorizzazione di ciascuno. La comunità cristiana che sa accogliere i giovani per ciò che sono, a poco a poco genera appartenenza e l’appartenenza sostiene l’impegno di capire, genera identità, motiva il coinvolgimento. Nel contesto di oggi difficilmente può avere efficacia una prassi che chiede prima l’adesione della mente e poi, caso mai, quella del cuore e della responsabilità.
don Giorgio Bezze, direttore Ufficio diocesano per l’Annuncio e la Catechesi