Di primo acchito questa balzana associazione parrebbe niente di più di una provocazione, al limite una battuta. Nulla di tutto ciò; anzi: volendo declinare in politicis l’agape cristiana in una proposta scevra da sbrodolamenti sentimentalisti e irenici, il campo semantico dischiuso dal vocabolo anarchia risulta essere assolutamente pertinente.
Urge anzitutto sgomberare il campo dagli equivoci. Agape non è l’amore in generale. È quell’eterna relazione sostanziale che, nello Spirito, unisce e distingue il Padre e il Figlio, di cui Essi intendono partecipare l’uomo e l’intera creazione. Anarchia, se considerata da una prospettiva squisitamente etimologico-concettuale, non va associata al proposito di eliminare anche con la violenza i detentori del potere; essa denota invece il proposito di costruire relazioni, nel contesto politico ma non solo, prive di quell’elemento che è il comando, sia esso inteso come potestas o come auctoritas.
Basti pensare a tal riguardo ai gesti e alle parole di Cristo. Cristo, che abbassandosi per iniziare a lavare i piedi ai discepoli (Gv 13), si carica sino in fondo dell’umanità per risorgerla: è con tale umiltà che semina nel cuore dei discepoli la sua agape, abilitandoli così a continuare a lavarsi i piedi l’un l’altro. Quei discepoli che chiama amici e non servi (Gv 15), perché Egli non è il loro dominus. L’agape non è poi l’oggetto di un comandamento, come erroneamente traduciamo il termine greco entole di 1Gv 4: è invece quel modo che permette a qualcosa di funzionare efficacemente e, allo stesso tempo, l’istruzione da seguire per farlo funzionare. Non v’è quindi l’intento di comandare qualcosa a qualcuno, bensì manifestazione di zelo nei suoi confronti.
Umiltà, amicizia, zelo per l’altro: gerarchia e costrizione, gli ingredienti imprescindibili di qualunque forma di comando, sono assenti. E pertanto è assente anche il comando: anarchia, per l’appunto. L’anarchia “agapicamente” intesa non denota pertanto quella dottrina e quella prassi tali per cui anarchico è chi elimina qualsivoglia padrone che lo comandi; bensì quell’atteggiamento tale per cui ci si adopera per privare dell’elemento del comando le proprie relazioni con l’altro, per potersi porre con umiltà, amicizia, zelo – appunto: agape – al suo servizio. Tornano alla mente le parole con cui Gregorio di Nazianzo incide l’icona della sua amicizia con Basilio Magno: «questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all’altro di esserlo».
Dario Ventura, filosofo e docente