“Dove sei?” – per un medico sembrerebbe scontato rispondere “mi trovi qui, accanto al malato”. Eppure oggi non è raro che attorno al letto di degenza si combatta una battaglia in cui pazienti e infermieri, familiari e dottori diventano progressivamente avversari, nemici gli uni agli occhi degli altri.
Questa crisi della relazione di cura ha cause diverse e ramificate, e spesso le degenerazioni più insidiose sono derivate da processi in sé positivi. È il caso del superamento del paternalismo medico: il vecchio modello di relazione medico-paziente fortemente asimmetrico, in cui era solamente il medico a decidere “per il bene (presunto) del paziente”. Senza dubbio l’abbandono di questo schema sbagliato e il progressivo sviluppo di una cultura dei diritti del malato sono stati e sono tuttora processi positivi, che hanno portato a una necessaria rivalutazione della dignità e dell’autonomia della persona sofferente (persino Gesù si accosta al malato chiedendo “Vuoi guarire?” Gv 5,6). A nessuno sfuggono, tuttavia, le possibili derive in senso estremizzato dell’autodeterminazione (in cui si dimentica che ogni uomo, e specialmente il malato, è persona in relazione), né gli eccessi di un approccio puramente informativo, in cui la figura del medico “tecnico-esperto” si svuota di ogni ruolo di promozione della salute. La perdita sempre più marcata di fiducia reciproca nasce paradossalmente dentro una dinamica buona.
In modo analogo, da una stupefacente disponibilità di informazioni (l’informatica, la rete) siamo caduti in un’anarchia della conoscenza che fa danni e vittime (si pensi alla disinformazione sui vaccini); da una incredibile disponibilità di mezzi tecnologici per la diagnosi e la cura siamo scivolati nella perdita della centralità del racconto e del contatto fisico (in gergo tecnico l’anamnesi e l’esame obiettivo); dalla giusta preoccupazione per la condivisione delle conoscenze e l’omogeneità delle cure tra contesti differenti siamo passati alla dittatura delle linee guida e di percorsi di cura pensati più come catene di montaggio che come luoghi in cui vivere relazioni di qualità e dialoghi sui passaggi vitali più critici dell’esistenza (nascere, generare, dipendere, morire…).
Di fronte a queste difficoltà è necessario che medici e malati compiano assieme alcune azioni determinate: quell’essere l’uno accanto all’altro, che non può più essere dato per scontato, va scelto.
Come ricorda il codice deontologico del 2014, significativamente ripreso dalla legge 219/17, «il tempo della comunicazione è tempo di cura» – occorre perciò decidere di passare del tempo assieme, scegliere di raccontare e ascoltare le storie della malattia e della guarigione, stringere mani, tastare polsi, carezzare volti e ascoltare cuori che battono, investire sul dialogo nella pianificazione condivisa delle cure che si dà solo dentro una relazione duratura nel tempo, combattere contro i giri visite al tempo presto-prestissimo e i colloqui al cronometro.
Scegliere di stare accanto, di sostare accanto al letto del malato, meglio se seduti, guardandosi negli occhi – è la vera scelta “rivoluzionaria” che i medici devono compiere oggi per rimanere capaci di curare. Solo così, tra l’altro, possiamo pensare di insegnare ancora qualche cosa di buono per la salute dell’altro – di essere ancora doctor.
E similmente scegliere di stare con il medico, di passare del tempo in ascolto e di non trattarlo come un distributore automatico di ricette e certificati indotti da altri, di capire anche la sua fragilità e debolezza, è una scelta necessaria per familiari e pazienti bisognosi di cura.
Francesco Simoni, medico internista e presidente dell’Azione Cattolica di Padova