A che ora c’è messa?…

Lettera diocesana 2019/07

Dire assemblea, che in buona teologia è il convenire – il fare ἐκκλησία – di coloro che sono convocati per la celebrazione della Pasqua del Signore Gesù, porta a pensare quasi istintivamente a un invito al quale “rendersi presenti”: poiché si è stati chiamati, la cosa più adeguata è rispondere, andando a far assemblea. Questa viene intesa allora come l’insieme – eterogeneo nel tempo e nello spazio – di coloro che, responsabilmente, hanno scelto di “fare comunità”, di metterci del proprio. Ma se l’assemblea che si riunisce per celebrare è la “somma” di quelli che hanno risposto all’appello, non sorprende allora che spuntino quei logoratissimi e frustranti “buon giorno”, “buona domenica”, “benvenuti”, “siamo qui riuniti”, o le altre ridondanze da speakeraggio sdrucito e tristarello; l’assemblea celebrante subito si riduce all’auto-convocazione di quelli che – anche se “pochini” – ancor ci credono: un club démodé che in qualche modo si ritrova e tenta ancora di guadagnare qualche iscritto… Il primo deluso e scoraggiato sarà il “responsabile” di questa assemblea il quale, suonando le campane della convocazione, continua ad attendere ogni domenica, a pochi minuti dall’inizio della messa, almeno “uno che faccia le letture”, ripetendosi rattristato quel «non c’è più senso di comunità!», dopo aver donabbondianamente chiuso il breviario «tenendo dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena»… malinconica considerazione dalla quale anche chi scrive è assalito ogni domenica, avvezzo a celebrare da trent’anni in città, dove il paganorum sæculum è giunto da tempo…

Dio, nelle densissime pagine del libro dell’Esodo (19,5-6; 24,1-11), convoca una qahal[1] perché il popolo celebri con lui l’alleanza: egli vuole costituire il popolo attorno alla sua legge (la Torah), che è l’irruzione del suo amore nella storia; la chiamata di Dio non è fatta per numerare, per censire chi gli appartiene, ma per edificare tale qahal sul suo amore. Anche Gesù Cristo chiama a sé un’ἐκκλησία non dapprima per numerarla, ma perché egli stesso vuole edificarla, fondandola sulla nuova alleanza nel suo sangue (cfr. Mt 16,18; Lc 22,20).

Nel nuovo Ordinamento generale del Messale Romano (2004) si legge: «Quando il popolo è riunito (populo congregato), mentre il sacerdote fa il suo ingresso, con il diacono e i ministri, si inizia il canto di ingresso» (n. 47): è come dire che la liturgia non inizia con il signum crucis o con il canto d’introito ma con l’azione, l’opera di Dio – l’opus Dei di benedettina memoria – con la quale egli agisce, chiamando a sé il suo popolo; non è il vescovo o il presbitero a convocare il popolo cristiano, né quest’ultimo, di sua iniziativa, si raduna; ma è Dio che chiama gli uomini per costituirli in santa assemblea; la convocazione è, pertanto, l’atto con cui Dio agisce e genera l’ἐκκλησία, la Chiesa. Il senso teologico di un’assemblea radunata per celebrare i divini misteri, non è assimilabile all’umana attività, ma lega piuttosto la sua efficacia all’insondabile opera di colui che la compie: Dio stesso! Intendiamo come Dio sempre operi nella sua Chiesa, anche se questo suo agire resta asimmetrico rispetto al nostro archetipo di attività. In contesto altro, riferito all’osservanza del riposo sabbatico, Gesù ha apostrofato i giudei – come si legge nel Vangelo di Giovanni – dicendo loro: «“Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio» (Gv 5,17). Ora se secondo la Legge di Mosè il lavoro era vietato di sabato, poiché anche Dio si era riposato e non aveva lavorato il settimo giorno della creazione (cfr. Es 20,8-11), Gesù rivela che la “sospensione” dal lavoro umano serve a comprendere – quasi per contrario – che il Padre opera sempre. E quest’opera creatrice continua incessantemente, sostenendo l’universo e ogni uomo: Dio agisce in ragione di ciò che egli è, e quest’opera è il suo amore che irrompe nel mondo attraverso il Figlio. La guarigione del paralitico alla piscina probatica di sabato – descritta dall’Evangelista – è metafora dell’opera di Dio nel mondo, del suo agire incessante, del suo amore dispiegato nella storia, dell’edificazione del suo Regno, della santificazione del suo shabbat.

Le nostre assemblee liturgiche non possono diventare uno spazio per contarci e dirci che siamo quelli che hanno seguito davvero [?] il Signore: esse sono l’opus Dei, l’opera con la quale egli edifica la Chiesa. Per questo l’unica potenza che il rito possiede sta nel suo essere un’epifania dell’agire di Dio: per questo un’assemblea celebrante agisce con pura gratuità (libera da ogni funzionalismo), in un intreccio sublime tra canto ecclesiale e silenzio dell’anima (emancipato da ogni frastuono mondano e da ogni intimismo solipsistico), con il linguaggio del corpo, della voce e dei sensi (distante dalla banalità dell’immediato e dell’immediatamente fruibile), offrendo l’arte del celebrare un rito che appartiene alla Chiesa (alieno da ogni cerebralismo, da ogni linguaggio di nicchia, da ogni banalità frutto di improvvisatori, lusingati dal parlare linguaggi comprensibili solo perché son loro a crearne il codice, illudendosi di ottenere la partecipazione attiva dei fedeli come lanciando l’App Google traduttore), investendo sulla qualità del celebrare (anziché sull’ingenua demagogia di legger messa all’ora più comoda del giorno, cosicché chi deve ha il tempo di metter su l’arrosto…). Accontentarsi di sapere «a che ora c’è Messa?» vuol dire dimenticarsi che non ci dobbiamo andare noi, ma dobbiamo credere che lui, risorto, sta cucinando il pesce sulla riva del lago (cfr. Gv 21,9-20).

don Gianandrea Di Donna, direttore Ufficio per la Liturgia


[1] Il termine qahal (derivato da qol, voce) indica sia la convocazione in un’assemblea (Es 35,1; Num 20,8; 1Cr 15,3) sia l’atto stesso del radunarsi (Lv 8,4; Ger 26,9); qahal è, per antonomasia, l’assemblea del popolo di Israele riunito presso il monte Sinai (Dt 9,10; 10,4) dove Jhwh stipula l’alleanza con il suo popolo, conferendogli la legge. Il termie ebraico edah indica, invece, il popolo di Israele nella sua unità. La traduzione greca dei Settanta adotterà il termine ἐκκλησία (da ἐκ, “da”, “fuori di” + καλέω, “chiamare”, “convocare”; per cui “chiamar fuori”, nel senso di una convocazione fatta per prendere decisioni importanti) per tradurre esclusivamente qahal; invece per l’ebraico edah tradurrà con il greco συναγωγή (da συνάγω, composto di σύν, “con” +‎ ἄγω, “guidare”, “condurre”, cioè “convenire”, nel senso di riunire un’assemblea regolare, accompagnata anche da un pasto o da un sacrificio).