Dialogare è un verbo composto. Non nel senso dalla grammatica italiana. Piuttosto lo è secondo due accezioni importanti, che è bene tenere a mente.
La prima. Dialogare è un verbo composto perché richiede compostezza nel suo esercizio. Chi dialoga lo fa cercando di muoversi con attenzione e rispetto verso un mondo diverso. Si tratta di un mondo a lui sconosciuto o solo parzialmente famigliare. Questo, infatti, non è il suo mondo specifico, quello che ne ha dato le origini e ne ha curato la formazione. Si tratta di un mondo altro. Un mondo concreto, portato – o sarebbe meglio dire incarnato – da una persona o da un gruppo di persone diverse da lui. Questa dimensione interpersonale va sottolineata: non si dialoga con le idee, semmai le idee si discutono. Invece si dialoga con le persone, che diventano per se stesse carne e sangue di una storia, di un sistema di valori, di emozioni condivise, di riti e usanze, di modi di esprimersi e di modi di reagire e che prendono il nome di cultura o di religione, oppure di tutte e due le cose assieme. Si tratta degli elementi di un territorio immateriale e al contempo sostanziale, come sostanziale è ogni esperienza umana. Ecco, verso questo territorio ci si avvicina con compostezza; per conoscere e farsi conoscere. Senza la pretesa della completezza, di portare tutto e di vedere tutto. Di questo tutto “sempre più grande” nessuno – persona o gruppo che sia – può avere l’ardire o la pretesa di esprimerne con compiutezza e perfezione gli elementi, anche se gli appartengono in maniera propria e naturale.
Dialogare è un verbo composto anche per un’altra ragione. È un verbo fatto di verbi. Difficile ricordarli tutti. Più ti fai esperto di dialogo, più sai cogliere i tanti e diversi elementi di questa capacità umana che ha la natura dell’arte: si impara facendo. Parlare e ascoltare, condividere e dibattere, formulare e chiarire, sono solo alcuni esempi dei tanti elementi che entrano in gioco in questo fenomeno umano che si sviluppa a partire dalla fiducia tra due identità, dall’apertura verso un interlocutore, dalla disponibilità a manifestare se stessi e dalla possibilità di veder nascere nuove sintesi, sia personali che condivise.
Pensando più specificatamente al dialogo religioso, sia ecumenico che interreligioso, è il caso di sottolineare un verbo importante, non ancora nominato. Si tratta del verbo studiare o, se lo vogliamo esprimere più concretamente, sarebbe il caso di dire il verbo leggere. Per dialogare bene con un’altra persona, con profitto e anche con gusto, bisogna accettare di passare ore a leggere i suoi testi sacri, i suoi riti, i suoi monumenti artistici e architettonici, prima di aprirsi efficacemente e sensatamente con lui. Serve portare interesse per il mondo dell’altro per dirgli che lo si porta già nel proprio cuore, prima di ogni parola od occasione di incontro.
Ma soprattutto c’è bisogno di saper leggere e chiamare col loro nome i tanti elementi religiosi che compongono il proprio mondo religioso di provenienza perché, è bene ricordarlo, il dialogo è fruttuoso se a parlare sono due identità chiare e riflessive. Perché tra ombre non c’è dialogo.
don Enrico Luigi Piccolo,
direttore dell’Ufficio di pastorale per il Dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso