C’è una grande parola che la Scrittura ci offre, quale orizzonte per una riflessione che tenga assieme la pace e il nostro rapporto con la terra: shalom. È un termine che – lo ricordava già quasi sessant’anni fa Giovanni XXIII nella Pacem in Terris – non indica la semplice assenza di conflitti, ma evoca piuttosto la possibilità di una vita buona entro una convivenza armoniosa, nella giustizia. In realtà tale è la sua ampiezza di orizzonte che la Scrittura la usa talvolta per indicare la stessa salvezza, nel suo dispiegarsi storico. È così, ad esempio, nel parallelismo che troviamo nella seconda parte del Libro di Isaia: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza» (Is 52,7). E anche il Nuovo Testamento riprenderà tale prospettiva, designando Cristo come «la nostra pace» (Ef 2,14) e indicando in lui lo spazio di una riconciliazione dalle dimensioni cosmiche (Col 1,20).
È però soprattutto la tradizione profetica a offrire immagini potenti, preziose per cogliere il rapporto costitutivo che lega pace e terra. Mi riferisco, ancora, al libro di Isaia, che nella prima parte ci offre testi memorabili, spesso richiamati dalla liturgia in tempo di Avvento. «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,4): è la promessa inaudita di un futuro in cui la guerra sparisce dall’orizzonte stesso dell’umanità, mentre le armi vengono trasformate in strumenti per la vita e il lavoro della terra. E vi sono anche visioni persino più radicali:
«Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso» (Is 11,6-8).
Certo, forte è la tentazione di interpretare questo testo come semplice metafora di una riconciliazione tra le diverse realtà che compongono la realtà umana, tra i diversi corpi sociali. Indubbiamente anche tale significato è pure presente nel testo, ma non dovremmo sottovalutare il realismo della Scrittura che in più occasioni disegna immagini del cosmo futuro del tutto irriducibili alla contraddittorietà del presente. Quello che Dio promette – qui come in altri testi – è una pace che investe anche il mondo naturale, donandogli una forma libera da quella violenza e quella predazione che a esso sembrano connaturati. Il futuro escatologico viene cioè disegnato con le tinte descritte nel primo racconto di creazione, di un mondo formato per universale vegetarianesimo (Gen 1,29-30). Shalom dice insomma di un Dio che opera per il rinnovamento della comunità umana e per la pacificazione del creato tutto e che custodisce la vita di ogni creatura. Non è certo casuale che le due dimensioni si ritrovino congiunte in Francesco d’Assisi, uomo di pace e fratello universale, né è casuale che alle sue parole abbia attinto papa Francesco per le sue due ultime encicliche.
Si disegna così uno spazio denso di promessa e di impegno che anche noi siamo chiamati ad abitare, come costruttori di pace e custodi della casa comune, in un tempo in cui l’una e l’altra sono minacciate.
Simone Morandini, coordinatore progetto Etica, filosofia e teologia, Fondazione Lanza