CASOMAI (2002)
di Alessandro D’Alatri
commedia, 110min
Stefania e Tommaso arrivano nella chiesetta di San Gabriele, isolata tra le colline, e dicono al parroco don Livio che hanno intenzione di sposarsi. Don Livio scambia qualche parola con i giovani, poi acconsente. All’altare i due ragazzi e i presenti lo ascoltano mentre pronuncia frasi inattese sulla fragilità del matrimonio oggi. Don Livio coinvolge poi amici e parenti, e infine Stefania racconta come si sono conosciuti. In flashback, ecco il loro recente passato: lui pubblicitario, lei truccatrice negli studi dove si girano gli spot. Durante una gita in montagna, lui le chiede di essere sua moglie. Si sposano, nasce un bambino, e qualcosa inavvertitamente comincia a cambiare. Timori, campanelli d’allarme: a Tommaso viene assegnato meno lavoro. Per avere un po’ di tempo libero, cercano una colf, ma poi preferiscono la nonna di lei. Tra loro però il dialogo comincia a diminuire, e a Tommaso viene detto chiaramente in ufficio che deve decidere quale tipo di impegno privilegiare, la famiglia o il lavoro. Le spese crescono, e a Tommaso il commercialista suggerisce di divorziare per pagare meno tasse. Nello studio un giorno per caso viene chiesto a Stefania di posare per una pubblicità, e lei accetta. Poco dopo, lei dice al marito di essere di nuovo incinta. Lui ha paura del futuro, e lei, dopo qualche incertezza, abortisce. La nonna, addolorata, lascia la casa. Tommaso fa un viaggio con i colleghi dello studio, per ritirare un premio alla miglior pubblicità. Mentre è fuori, ha un rapporto con una ragazza dello staff. Al ritorno Stefania lo caccia di casa. Entrambi finiscono in mano agli avvocati. Si parla ormai di tribunali e di reciproche accuse, quando il racconto rientra nella chiesetta dell’inizio. Don Livio conclude il filo del proprio ragionamento, ricordando che tutto quello appena raccontato può accadere agli sposi nella loro futura vita matrimoniale e sfidare il loro reciproco amore. Invita poi i presenti a uscire. Quando escono dalla chiesa, Stefania e Tommaso sono sposati e felici ricevono gli auguri di tutti.
L’argomento, per quanto rimosso, respinto e collocato ai margini, resta centrale nella società italiana e in questi anni di passaggio dal secondo al terzo millennio: il matrimonio, con tutti gli aspetti che lo circondano, la vita di coppia, i figli, il lavoro, il successo, il tempo libero. Dopo tante analisi di non sempre convincente lucidità ingabbiate in uno sterile sociologismo, questo racconto ha la freschezza, l’efficacia, la vivacità di proporre una riflessione nuova e del tutto attendibile. Merito principale è forse da attribuire alla scrittura del copione, concepita in modo da collocare sullo sfondo di una Milano vera e autentica un “pezzo” centrale di storia che il finale ci rivela solo immaginato. Ed è invece qui che prende vita un realismo palpitante e minuzioso che diventa cronaca esatta di un “disamore” quotidiano, tra seduzioni di carriera e spinte a una vita esteriore sotto i riflettori. Dall’altro lato c’è il filo conduttore, dettato dal parroco: frasi le sue aperte e spiazzanti nella prospettiva seria di un invito a prendere coscienza della scelta che si compie; l’attenzione posta sulla preparazione al matrimonio; il richiamo alle responsabilità reciproche. Nel descrivere la parabola ora ascendente ora discendente della coppia di oggi in una cornice metropolitana sfuggente e frastagliata, D’Alatri assume un punto di vista insieme rispettoso e coraggioso. Gli inciampi sentimentali, le incertezze professionali, i dispiaceri e il dolore si succedono lungo un ventaglio esistenziale che ha la forza di non rinunciare ancora a credere nel possibile raggiungimento della felicità nell’amore reciproco. Restano nella memoria il singhiozzo sommesso della nonna che lascia la casa alla notizia dell’aborto, e il gesto del parroco che nel finale chiede di restare solo con gli sposi. Essenziale e caparbio, inatteso e propositivo, il film, dal punto di vista pastorale, è da valutare come raccomandabile, e problematico, per la forte sincerità che emana dalla presa d’atto di tante difficoltà che però non escludono la fiducia e la speranza. Da utilizzare in programmazione ordinaria, e da proporre in molte occasioni, anche in funzione didattica ed educativa, per una riflessione ad ampio raggio sul tema del matrimonio nella società italiana attuale (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).
SUL PIÙ BELLO (2020)
di Alessia Filippo
commedia, 90 min
“Sul più bello”, opera prima di Alice Filippi, racconta la storia di Marta (Ludovica Francesconi). Rimasta orfana a tre anni e affetta da una malattia inguaribile la ragazza vive, quasi in simbiosi, con gli amici di sempre, Federica (Gaja Masciale) e Jacopo (Jozef Gjura), e si mantiene leggendo annunci commerciali in un grande supermercato. Consapevole di sé e del poco tempo che le rimane, Marta è alla ricerca dell’amore, vuole essere amata e punta in alto: vuole il ricco, bello e corteggiatissimo Arturo (Giuseppe Maggio). Apparentemente fuori dalla sua portata, Marta saprà conquistarlo con la sua sincerità disarmante e la sua insopprimibile gioia di vivere. Il film è una sorta di favola moderna, surreale, quasi una graphic novelironica, anche nei confronti della malattia. È commovente quanto basta a coinvolgere emotivamente lo spettatore, senza cercare di strappare lacrime, anzi cercandone piuttosto i sorrisi: come non ridere, infatti, delle disavventure di Marta, con i suoi impacci e la sua goffaggine, ma anche la testardaggine e l’ottimismo, il coraggio e la positività con cui affronta la vita.
Dal film è stato tratto il libro omonimo, scritto da Eleonora Gaggero. Dal punto di vista pastorale il film “Sul più bello” è da valutare come brillante, problematico e adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).
FIGLI
di Giuseppe Bonito
commedia, 97min
I quarantenni Nicola e Sara – efficacemente interpretati dai sempre bravi Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi – sono sposati da tempo e hanno una figlia di sei anni, Anna; sono felici e la vita familiare scorre senza intoppi. Le cose cambiano quando nasce Pietro, il secondogenito, e i due non riescono più a gestire la quotidianità. Emergono nuovi e vecchi rancori, anche nei confronti delle famiglie di origine, sulle quali si rendono improvvisamente e amaramente conto di non poter contare. Gli amici, poi, sono nella loro stessa situazione (se non peggiore). L’unica salvezza sembra essere una babysitter, ma la ricerca è ardua e trovarne una che faccia al caso loro sembra impossibile. Le insoddisfazioni crescono e ogni minimo disaccordo, ogni imprevisto, anche piccolo, sfocia in una lite che porta la coppia sull’orlo del disastro. Il film procede a “capitoli”, accuratamente scelti, montati e “intitolati” da un’abile e sicura regia, in un crescendo rossiniano di risate (per il pubblico) e di problemi (per i due protagonisti), con un’alternanza sapiente di situazioni comiche e momenti di riflessione; fino alla svolta finale, rappresentata da una frase che la “pediatra guru” (Daria Deflorian) dice loro: le cose possono cambiare solo se impariamo ad accettarle. Accettare quello che ci accade, avere cura di noi stessi, delle persone che amiamo e del nostro Paese. Pittoresco, ironico, agrodolce e autentico ritratto della nostra società, il film è da valutare dal punto di vista pastorale come brillante, problematico e adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).
CUORI PURI (2017)
di Roberto De Paolis
drammatico, 114min
Tor Sapienza, periferia di Roma. Lungo la strada Stefano rincorre Agnese, quando la raggiunge, dopo un inizio incerto, si convince a farla andare via con il piccolo oggetto rubato nel vicino centro commerciale. Stefano e Agnese sono destinati a lasciarsi, riprendersi, e tornare insieme in una continua ripetizione fatta di abbandoni e vicinanze…
Sarà un caso ma da quando sono quasi tutti i giorni sulle pagine delle cronache cittadine, l’argomento periferia urbana è diventato di utilizzo comune e sempre meno nuovo. Questo non vuole dire che non meriti attenzione, anzi la lente ingrandita sullo stato di incertezze e di precarietà che scandisce la vita delle borgate urbane serve a declinarle in modi sempre più approfonditi e a denunciarne l’instabilità congenita. Così Roberto De Paolis, classe 1980, al momento di mettersi in prova con l’opera prima, raduna i materiali emersi da un ricerca sul territorio, riguardanti giovani, adolescenti, il lavoro, la casa, i rom, vi affianca l’iniziativa di un gruppo cattolico della parrocchia guidato da don Luca, ritiene di aver individuato una bella premessa e parte con la macchina a mano imbracciata simile a fucile pronto a rimettere a posto le cose. Il fatto è che il copione non va nella stessa direzione degli eventi, anzi il sentimento che nasce tra i due ragazzi sembra sempre più sicuro fin quando trova ostacolo nel voto fatto da Agnese di restare vergine sino al matrimonio. La rottura dell’accordo ingenera debolezze e criticità, sconvolge la mamma di Agnese, crea panico e tensione nella borgata. Certe rappresentazioni di questi luoghi sembrano sempre di più lontane e prive di contatto vitale con la realtà. Soprattutto per lo sguardo fin troppo “addosso” ai fatti e per l’intenzione, voluta, di non arrivare a una conclusione, di tenere i protagonisti distanti e quasi alternativi. Quale finale accomuna Agnese e Stefano, quali conquiste li tengono avvinti? Come in altre circostanze manca una forte tenuta narrativa capace di legare i passaggi motivati a quelli che denunciano. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come discutibile, problematico e adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).