Non possiamo non percepire, di questo tempo, la precarietà. Affascinati dal possibile rinnovamento, evitiamo la parte faticosa di qualsiasi crisi. Se sono chiamato a scegliere quale dei due sentieri imboccare – perché questa è la crisi, da krino, separo – e quindi sperare nella strada migliore, è perché devo accettare che la situazione sia divenuta insostenibile.
Ciò che è precario è tale perché ottenuto “per preghiera” (prex), cioè grazie alla tolleranza, al permesso, altrui. Riconoscere una dipendenza radicale non è certo cosa da poco per chi faccia i conti con la salute, con il lavoro, con una famiglia gettata nell’incertezza. E queste righe vengono tracciate mentre altri patiscono – altri, lontani o vicini, di cui tener conto, e non come numeri nelle statistiche.
Considerare la precarietà altrui può esser frutto di empatia, o di intelligente lettura della realtà. L’istituzione, Stato o Chiesa, adotta le sue strategie, in nome dell’uguaglianza sostanziale (art. 3 della Costituzione) o del servizio a quei poveri che avremo con noi «sempre» (Mc 14). Fortissima è così la tentazione della delega: che altri pensino agli altri, i precari.
Può essere interessante ritornare a un’esperienza così vicina a chi cerchi di tradurre in pratiche la propria fede, precaria anch’essa, da esser ormai parte dell’ovvio, del panorama scontato. Può essere anzi decisivo, perché la liturgia, l’insieme del servizio rituale cui prendiamo parte, per lo più nelle celebrazioni eucaristiche, è massimo momento di assunzione di responsabilità. Curioso associare questo atteggiamento etico attivo – il farsi carico degli altri – a comportamenti considerati passivi: ascoltare, alzarsi, inginocchiarsi, segnarsi, rispondere. Paradossale forse, ma solo se non si tiene conto di cosa sia un rito.
In esso non ci è chiesto di concentrare la mente per capire qualcosa, né di “sintonizzare il cuore” con qualche nobile sentimento: se già da prima non abbiamo intuìto, il rito sarà meccanico; se patiamo la sclerocardia, sarà vuoto. In esso non sono in questione la comprensione o il sentimento: è vero, possiamo detestare alcune «mestissime omelie» (Turoldo) o rimanere affascinati da vere spiegazioni teologiche; possiamo percepire la noia o la gioia, godere della musica e dei gesti. Ma non sono questi gli scopi della liturgia: il suo lato estetico è finalizzato a essa stessa, non al nostro piacere. Il fatto è che il rito è tale perché sempre uguale, rifugge la sperimentazione, la novità “commerciale”: in esso il corpo del sacerdote traccia un percorso al quale partecipa il nostro corpo, non da spettatori. È una danza cui decidiamo di prender parte, ma che esisterebbe anche senza di noi. Questo può spaventare, o irritare, e tuttavia solo ciò che rimane, al di là di noi, rappresenta ciò a cui poter tornare: la stabilità genera speranza (Bonaccorso). Qualcosa ci attende proprio perché lo riconosciamo capace di esaudire la nostra fiducia, e per questo tuttavia non può essere a noi sottoposto. Ecco: al di là degli strumenti che maneggiamo, nei quali abitiamo, cui siamo costretti, il rito sfugge al nostro controllo. Di più: è un luogo in cui potersi finalmente abbandonare, in cui accettare e basta, senza ansie di cura, di consumo, di comprensione, di prestazione. Il rito non serve.
E che cos’è, allora? Un linguaggio, un alfabeto, che riscrivono il mondo. Si affaccia una realtà sconfitta, a sua volta precaria: l’io scompare, con le sue pretese e necessità, ed emerge la comunità; e questo succede anche se il prete celebra da solo, perché non è la semplice comunità tangibile, ma quella che può ancora nascere, quella che verrà. Nella liturgia cristiana siamo accompagnati a lasciar fisicamente spazio all’altro, che assume la forma del qualcosa che conti di più: solo se abbattiamo gli idoli, allora avremo occhi per accorgerci dell’altro, degli altri.
Giovanni Realdi, insegnante e formatore