Sappiamo bene che una celebrazione non è fatta solo di parole e di libri liturgici, ma implica linguaggio verbale e non verbale, coinvolgimento dei sensi e della gestualità, dei segni e degli spazi, del silenzio e della musica, perché la liturgia sia davvero un linguaggio per tutto l’uomo. Eppure, una volta ribadite queste verità più che condivisibili, siamo sempre alle prese con le fatiche celebrative, oppure con minimalismi liturgici o rubricismi eccessivi che non lasciano margine al buon senso, al gusto e alla misura.
Il Messale che esce nella terza edizione non risolverà le questioni liturgiche e non metterà tutti d’accordo sulle modalità del celebrare. Tuttavia, non sarebbe nemmeno onesto e corretto ridurre il nuovo libro liturgico a due o tre ritocchi testuali, immaginarlo come un “aggiornamento dell’orecchio” a parole nuove, oppure usarlo come una semplice partitura da eseguire. Il Messale Romano, ancora una volta, dice la responsabilità di una Chiesa che coltiva le parole della sua fede, così come consegnate dalla riforma liturgica del Vaticano II e le custodisce come ricevute in prestito perché la fede di tutti sia garantita.
L’occasione della pubblicazione è utile per interrogarci sulla qualità delle nostre celebrazioni e non tanto sui numeri dei partecipanti; sull’efficacia del linguaggio, sulla tenuta o lo stravolgimento dei riti; sulla tendenza a eccedere o sulla povertà della proposta a fronte di una liturgia latina che si è sempre caratterizzata per la sua sobrietà ricca e la sua bellezza semplice.
E senza nulla togliere a discorsi di ben altro livello, mi piacerebbe che un prete, con responsabile e dovuta professionalità, imparasse davvero gli strumenti che è abitualmente chiamato a usare, senza farne un uso approssimativo. Allo stesso tempo mi piacerebbe che una comunità e gli operatori pastorali sentissero proprio il libro liturgico, carico di potenzialità fin troppo taciute, senza lasciarlo al gusto del solo celebrante, perché una liturgia credibile si costruisce con la competenza, il tempo e l’apporto di molti.
Rimane sempre necessario il delicato equilibrio tra la sensibilità, la formazione, la storia di ciascuno, il reale saper fare e il «comune sentire della Chiesa», espresso dalla liturgia e dalle parole della fede: il Messale non piacerà a tutti e molti avranno da ridire sulla qualità e l’esito del lavoro durato anni, ma resta comunque un esercizio di Chiesa. Le parole, i gesti, le forme che la Chiesa si è data non sono mai sufficienti a raccontare la gioia di credere e di credere assieme, ma la comunione nella fede viene prima di tutto. Possiamo celebrarla non da soli, non a caso, dando voce certamente alla vita e alla fantasia di tutti; adattando, imparando, discutendo, ma sempre capaci di affidamento umile e percorsi condivisi. «In spirito e verità», come ci ricorderebbe Gesù.
mons. Giuliano Zatti, vicario generale Diocesi di Padova