Siamo seduti a un tavolino del cortile della canonica, mentre i piccoli usciti con le mamme dall’asilo fanno strepito sull’altalena. Appare sempre “strano” trovarsi di fronte: don Enrico, 36 anni da prete, ed Enrico, chissà quanti in galera e ancora non pochi da scontare! È qui in “affidamento” perché più di un tumore lo sta assalendo ed è diventato una sorta di cavia per le sperimentazioni che in ospedale stanno facendo con le sue malattie e con lo sviluppo delle cure intraprese. Gli butto lì le parole classiche della Quaresima che stiamo iniziando: penitenza e riconciliazione. Lui un po’ perplesso mi dice «Parole da predica!». Dopo un attimo di “pensamento”, come al solito, parte a cascata…
«Il peggio al Due Palazzi, come in ogni carcere, è quando la sera vengono chiuse le porte, le sbarre delle celle. Lì, disteso sulla branda, con gli altri compagni di cella a pochi centimetri, si realizza comunque una solitudine intensa, dentro la quale ti passa tutta la vita cento volte al minuto: le bravate e le cavolate, il bottino arraffato sì, ma anche il male inferto agli altri, le sofferenze alla famiglia… Occorre arrivare al fondo, quando le tue orgogliose difese si sono consumate, per chiedere aiuto. Spontaneamente cerchi la mamma, ma lei se n’è andata con tutte le ferite che le ho inferto, il crepacuore che le ho procurato. Allora pian piano ho cercato Maria, la mamma del cielo. Il dono è stato di una nuova tranquillità. E poi mi ha accompagnato a valutare in maniera diversa la vita. Prima ero assorbito dentro il mondo della malavita; oggi arrivo a rifiutare quel giro, fonte perenne di paure e di fughe. Ora non mi interessa più. Posso dire che nel momento peggiore, quando la “penitenza” e la pena le ho sentite come il male che mangiava il mio corpo, sono stato accolto e sostenuto da questa comunità, da persone che a buon diritto potevano chiudermi la porta in faccia e lasciarmi nella mia situazione, e invece, per non so quale dono, si sono prese cura di me: aperte, disponibili, accoglienti… amiche».
A quest’ora, quando chiude la Scuola dell’infanzia, il cortile della canonica diventa il parco giochi: l’altalena, lo scivolo, le panchine, bimbi che corrono, urlano, si divertono… ed Enrico che porta fuori una caramella, un succo di frutta, si mette a salutare un bimbo e a scambiare due parole con un papà, preoccupato perché la sua Sofia ha la tosse.
Lì, al tepore del sole, tra quella vitalità e quei gesti semplici e teneri con i piccoli, la pena da scontare nessuno la considera, la penitenza è già sfociata in una riconciliazione con la vita: vivacissima dei bambini, acciaccata e appesa al filo di una terapia sperimentale azzeccata o a un esame traballante per lui, ma sempre palpitante. E mi accorgo che quasi si perde la differenza tra i due Enrico, il mio “don” sfuma… Quasi mi domando se io sono mai stato capace di un cammino, di una conversione e di una riconciliazione del genere, proprio a proposito della Quaresima che ancora una volta sto cominciando.
Enrico e don Enrico, parrocchia di Campodarsego (Pd)