All’inizio della messa la comunità radunata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo confessa di essere composta da uomini e donne che, di fronte a Dio e ai fratelli, sono consapevoli di aver molto peccato «in pensieri, parole, opere e omissioni».
Attenzione: ciò di cui chiediamo perdono – nella messa, nel sacramento della riconciliazione, nella preghiera personale – non va confuso con il limite che caratterizza ogni realtà creata. Spiace sentire, come talvolta capita, che colui che presiede l’Eucaristia inviti se stesso e i presenti a chiedere perdono «per i nostri limiti». I limiti esistono, eccome, sono tanti e di varia natura: limiti psicologici, spirituali, morali, intellettuali, personali e collettivi. Vanno riconosciuti, alcuni di essi vanno superati, per quanto possibile, ma non potranno mai essere completamente eliminati. Non c’è ragione per sentirsi colpevoli e per chiedere perdono dei propri limiti. Di fronte a Dio e ai fratelli riconoscerò piuttosto con gratitudine di essere creatura, e dunque limitato, e chiederò allo stesso tempo di essere aiutato a scoprire e superare i limiti che possono essere superati e ad accettare invece gli altri.
Un’altra precisazione: quando da cristiani parliamo di peccato, non ci riferiamo in senso stretto a un comportamento sbagliato, alla trasgressione materiale di una norma morale o a un crimine che va sanzionato dalla legge civile o canonica. È senz’altro possibile usare anche il termine “peccato” per indicare questo tipo di azioni. Si possono stilare elenchi di peccati, come fa, ad esempio, la costituzione pastorale Gaudium et spes, al n. 27, segnalando tutta una serie di comportamenti contrari alla vita, all’integrità della persona umana, alla sua dignità. Il peccato però non si identifica con l’azione sbagliata: è l’atteggiamento cattivo della persona, l’intenzione malvagia della coscienza, la volontà cattiva a fare di un comportamento moralmente sbagliato “un peccato”. Più precisamente: è il rifiuto di Dio, che si manifesta, nella negazione di un’altra creatura o di sé come creatura, a far sì che il comportamento errato e l’atteggiamento cattivo si configurino come quel “peccato” di cui parlano in tanti modi la Bibbia e la predicazione ecclesiale.
Riconoscersi peccatori non è un atto spontaneo. C’è un cammino da compiere. Esso però non è quello della coscienza che si ripiega su se stessa e si scopre più o meno colpevole. O, almeno, non è questo il primo passo. A rendere possibile il movimento che porta alla scoperta del peccato è il fatto stesso del perdono. È l’incontro con la misericordia di Dio a far sì che una persona si scopra segnata dal peccato, tanto dal peccato “personale” (il libero e volontario rifiuto di Dio e della sua bontà), quando da una storia di peccato che lo condiziona negativamente (situazione alla quale la tradizione della Chiesa, almeno nell’Occidente latino, assegna il nome di “peccato originale”).
Se la Bibbia parla del peccato è perché un popolo ha sperimentato sulla propria pelle la sovrabbondanza della grazia. Noi cristiani esistiamo per testimoniare, pur con tutti i nostri limiti, questa sovrabbondanza.
don Riccardo Battocchio, docente alla Facoltà teologica del Triveneto