Mentre la LXXII Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (12-15 novembre 2018) giungeva ad approvare la traduzione della terza edizione del Missale Romanum latino (pubblicato nel lontano 2002), molta stampa nazionale si accontentava di titolare che… ora «è cambiato il Padre nostro». Il lungo percorso durato oltre sedici anni, con cui liturgisti, teologi, pastoralisti, letterati, musicisti, esperti dei più diversi settori sono giunti, assieme i vescovi italiani alla sospirata traduzione del Messale, veniva ridotto in modo approssimativo all’uso, nella Preghiera del Signore, del verbo italiano «non abbandonarci» che sostituirà la precedente versione «non indurci», utilizzata – quasi letteralmente dal greco con lo stesso criterio della Vulgata di San Girolamo – nella prima traduzione CEI.
Lo spirito più autentico della riforma liturgica spinge la Chiesa italiana a cogliere l’occasione del nuovo Messale per rilanciare, secondo una prospettiva più globale, la formazione liturgica, favorendo l’incontro con il mistero ineffabile di Dio, la vita sacramentale, l’ascolto della Parola di Dio, i ministeri liturgici, il canto, la musica, l’arte: si tratta di preparare una sorta di «riconsegna al popolo di Dio del Messale Romano», cogliendo – dicono i vescovi italiani nel comunicato finale – l’incongruenza di ogni «protagonismo individuale, di una creatività che sconfina nell’improvvisazione, come pure di un freddo ritualismo, improntato a un estetismo fine a se stesso». La pubblicazione del nuovo libro liturgico dell’Eucaristia, da questo momento affidato alla Sede Apostolica per l’ultima confirmatio, ci invita a soffermarci attentamente sul fatto che il nostro tempo reclami una rinnovata e matura riflessione sul compito di annunciare Gesù Cristo: l’esperienza liturgica, come nessun’altra attività ecclesiale, è senza dubbio la più capillare e immediata forma di annuncio che la Chiesa conosca; essa però richiede un’autentica ars cœlebrandi che, per la sua pregevole qualità, riesca a intercettare le corde più profonde dell’uomo contemporaneo.
La questione di un’arte celebrativa, associata a un serio progetto di qualità delle celebrazioni, ci chiede di riflettere, prima che su opzioni di ordine rituale, attorno a una prospettiva teologica ed ecclesiologica che ne motivino la scelta stessa. Bisogna riconoscere come la ragione del celebrare cristiano non dipenda solo dall’esigenza della Chiesa di darsi una visibilità pubblica e sociale. La liturgia cristiana è motivata dal fatto che la Chiesa è creatura dello Spirito Santo che la pervade e la fa esistere: essa è generata dall’alto, sgorgando come da una fonte viva, dal fianco squarciato di Cristo sulla Croce.
Queste considerazioni non fanno che ricordarci come la liturgia non trova la sua ragion d’essere nell’istruire i fedeli sulla fede, nella trattazione di qualche tema religioso o nel puro radunarsi come assemblea. La necessità imprescindibile del celebrare cristiano dipende dalla forza generativa che Dio compie per mezzo della Pasqua del suo Figlio unigenito: la Chiesa, come all’origine della vocazione della Beata Vergine Maria, si ritrova a essere oggetto di un annuncio prima che annunciante; evangelizzata, prima che evangelizzante. E, dalla sovrabbondanza di questa grazia, la sua missione al mondo diventa atto d’amore e di risposta libera e generosa. Indubbiamente i cristiani, a partire da questa prospettiva, possono riscoprire l’assoluta gratuità del celebrare, svincolato da ogni scopo funzionalistico e originato da quel novum radicale che è l’incontro con il Risorto. Solo qui si inizia a scorgere la bellezza di desiderare la qualità dell’atto celebrativo stesso: esso esprime la verità di questo incontro con il quale Dio non è tematizzato ma, alla sua presenza, ci invita a prostrarci per adorarlo, ad aprire gli scrigni e offrire in dono oro, incenso e mirra (cfr. Mt 2,11).
Ogni parrocchia, anche la più piccola, e ogni basilica, ogni famiglia religiosa o monastero, ogni cappella d’ospedale o villaggio di cristiani che abitano nella foresta, esistono prima di tutto per adorare Dio, perché la vita ricevuta in dono sia il dono nuovo di cui il mondo ha bisogno. Come un monaco, nell’antico scriptorium medioevale, si prendeva di ogni più piccolo dettaglio della sua miniatura, perché nel tratto di quell’immagine rilucesse la salvezza del mondo, così l’impegno per la qualità della nostre celebrazioni esprima la più luminosa verità del mondo: il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14).
don Gianandrea Di Donna, direttore Ufficio diocesano per la Liturgia