In Gaudete et exsultate papa Francesco ci sostiene in uno sguardo aperto e in movimento, in vivo e continuo dialogo tra la nostra interiorità e la realtà esterna. Presenti a noi stessi, agli altri, all’Altro. Condizione auspicata per arrivare a una dimensione quotidiana dell’esperienza della santità centrata sulla carità, sull’agape. Cristiano è esprimere accoglienza di un amore misericordioso che sempre ci previene e non dipende dai nostri meriti. Non è un modello morale il nostro riferimento, ma la fonte Cristologica: è la pratica di umanità di Cristo nel quotidiano. Un’umanità calda, pienamente accogliente e amica del reale.
Cristo nel Vangelo parte e utilizza il quotidiano per farne linguaggio per parlare di Dio. La relazione d’amore di Cristo con Dio si realizza attraverso le relazioni di cura e sollecitudine per tutte le persone che ha incontrato. Fino all’ultimo sguardo di amore sul ladrone accanto alla croce. Il luogo di culto passa dal rituale al relazionale. La gioia, che è gioia del Vangelo, è esperienza di un incontro significativo, che dà senso all’esistenza. È una gioia manifestata da quelle vite che sono state, e tuttora lo sono, buona notizia a favore degli altri. La verità è che non siamo soli, ma apparteniamo a una condivisione di vita e di sentimenti che ci rende amici e partecipi di un cammino comune: i santi della porta accanto. Vissuta nello spazio del quotidiano questa comunione si traduce, consapevoli della propria fallibilità e riconoscenti per le proprie potenzialità, nella tensione di avere attenzione e responsabilità verso l’altro, fino all’impegno civile.
Gaudete et exultate così si esprime al n. 101: «Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo, dove alcuni festeggiano spendendo allegramente e riducono la propria vita alle novità del consumo, mentre altri guardano solo da fuori e intanto la loro vita passa e finisce miseramente». È richiesta la vigilanza del nostro sguardo, in modo che anche quando l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, o la vediamo distrutta, ne riconosciamo pienamente la dignità umana e la potenzialità di rialzarsi.
Ne faccio esperienza concreta tramite un progetto teatrale che sviluppo in carcere. A volte provo un senso d’impotenza nei confronti della realtà carceraria che, ad oggi, esprime ancora una volontà sociale di giustizia vendicativa più che riparativa. A scapito dei più deboli socialmente. Nel gruppo teatrale ci sono persone detenute che provengono da situazioni economiche, affettive e culturali che hanno offerto scarse opportunità di scelta nella vita. Percepiscono, dolorosamente, di essere considerati dei “rifiuti”. Rifiutati da una parte della società che “si sente nel giusto”, irrigidita nel giudizio dell’errare altrui. Eppure il movimento di coscienza, di rivisitazione critica del proprio vissuto, crea in alcuni le condizioni per aprirsi a una capacità di ascolto, a una discesa nella propria interiorità sofferente. E in questa discesa, pur dolorosa, colgono aspetti autentici che risvegliano in loro parti di sensibilità profondamente umana. Una sensibilità che li ripone in relazione con la propria affettività e quella degli altri.
Trovo significative le parole del cardinale Francesco Saverio Nguyên Van Thuán citate a questo proposito al n. 17, quando dal carcere, rinunciò a consumarsi aspettando la liberazione: «Vivo il momento presente colmandolo di amore; afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in modo straordinario».
Ogni giorno può essere un nuovo inizio, se lasciamo spazio flessibile e fiducia alle forze di vita che agiscono storicamente e ordinariamente in noi e oltre noi.
Maria Cinzia Zanellato, studentessa ISSR di Padova