Ti supplichiamo, Dio onnipotente:
fa’ che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo,
sia portata sull’altare del cielo
davanti alla tua maestà divina,
perché su tutti noi che partecipiamo di questo altare,
comunicando al santo mistero del corpo e sangue del tuo Figlio,
scenda la pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo.
(Canone Romano o Preghiera eucaristica I)
Ti preghiamo umilmente:
per la comunione al corpo e al sangue di Cristo
lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
(Preghiera eucaristica II)
Guarda con amore
e riconosci nell’offerta della tua Chiesa,
la vittima immolata per la nostra redenzione;
e a noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio,
dona la pienezza dello Spirito Santo
perché diventiamo, in Cristo, un solo corpo e un solo spirito.
(Preghiera eucaristica III)
la vittima che tu stesso hai preparato per la tua Chiesa;
e a tutti coloro che mangeranno di quest’unico pane
e berranno di quest’unico calice,
concedi che, riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo,
diventino offerta viva in Cristo, a lode della tua gloria.
(Preghiera eucaristica IV)
è chiaro a ogni cristiano il fatto che la trasformazione dei santi doni del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo immolato, sepolto e risuscitato, avvenga per la potenza dello Spirito Santo: nel corso della celebrazione dell’Eucaristia, il vescovo o il presbitero invocano dall’alto (si parla infatti di epiclesi, il cui significato è – secondo l’etimologia greca derivante dal verbo epikalêo – chiamare, invocare) l’azione di Dio (così viene detto nelle preghiere eucaristiche più arcaiche) o più precisamente la potenza dello Spirito Santo (così nella preghiere eucaristiche di ceppo siriaco, il più teologicamente evoluto tra le varie tradizioni liturgiche). Questa epiclesi (elemento importantissimo della Preghiera eucaristica, che si può chiamare anche Anafora) dobbiamo considerarla invocazione per la trasformazione delle oblate (pane e vino) nel Corpo e Sangue di Gesù Cristo. Ma la tradizione liturgica delle Anafore ci consegna l’esistenza anche di un’altra (seconda) epiclesi: quella per la trasformazione di coloro che mangeranno e berranno il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo; essi, comunicandosi-nutrendosi del Corpo e Sangue dell’Agnello immolato e glorificato, riceveranno la pienezza dello Spirito Santo per poter diventare, in Cristo, un solo corpo e un solo spirito. Si chiede che il fatto di mangiare e bere il Corpo e il Sangue del Signore, di assimilare come cibo la sua vita offerta nell’oblazione pasquale, abbia come esito una seconda effusione dello Spirito Santo che trasformi coloro che si comunicano in un solo corpo e un solo spirito. Comprendiamo come Cristo abbia lasciato l’Eucaristia alla Chiesa, comandandole di celebrarla come memoria viva e operante del suo essere crocifisso e glorificato, affinché la stessa Communio eucharistica – dopo aver ottenuto la trasformazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo – trasformi i comunicanti in un solo mistico corpo, in un unico invisibile spirito. Comprendiamo da ciò come il fine ultimo dell’Eucaristia sia quello di costituire i credenti in unità, in comunione invisibile.
Non possiamo pensare alla Chiesa come il risultato di un accordo o di una convenzione; essa non è nemmeno un’assemblea che si riunisce per condividere interessi comuni; non si realizza in forza di un pensiero dominante o di una comune convergenza di fini da perseguire. Il dato di partenza resta la varietà e la diversità delle persone, delle storie, delle geografie, delle sensibilità, delle età e del sesso, delle preferenze, dei gusti, delle gioie e dei timori… Tutto ciò manifesta sia la ricchezza che la tensione nella vita degli uomini e, ovviamente, anche nella vita dei credenti.
In Cristo morto, sepolto e risuscitato è posta la grazia ineffabile che rende possibile – e solo in lui – l’unità e la comunione invisibile dei membri della Chiesa. Da una parte, facendo esperienza della vita della Chiesa, tutti noi, vescovo, presbiteri, diaconi, religiosi e laici, siamo continuamente chiamati – a livelli più diversi – a condividere, riflettere, programmare, istituzionalizzare, agire, governare, pregare, celebrare, testimoniare, scegliere, assumere, riproporre, soccorrere, pazientare, soffrire, sopportare… Tutto ciò ci è chiesto di esserlo e farlo “come Chiesa”, “fraternamente”, “in comunione”: ora questo non possiamo pensare di realizzarlo come impegno di convergenza da parte di ognuno; la prospettiva è rovesciata: la Communio Ecclesiæ [Comunione ecclesiale] precede l’esperienza che i credenti fanno della stessa vita fraterna e comune; la Chiesa è chiamata a riconoscersi costituita in unità dal Crocifisso risuscitato; da lui la stessa Chiesa è resa una, sancta, catholica et apostolica. A partire da lui, pertanto, la Chiesa si riconosce come unico corpo e per virtù di quel cibo e bevanda eucaristici che i suoi membri mangiano e bevono con frutto.
Ogni esperienza e organismo di Comunione sono perciò stesso nella Chiesa una manifestazione visibile dell’invisibile mistero dell’unità, dono del Risorto. Non si può pensare di costruire tale comunione con le forze umane o con gli intenti condivisi; la Communio Ecclesiæ scaturisce dalla stessa Pasqua di Cristo.
L’amicizia e gli affetti, la conoscenza e la progettazione, gli strumenti e gli organismi che danno vita a una Chiesa locale attorno al suo vescovo, vanno ricompresi allora come il coraggio di manifestare visibilmente e umanamente quanto per grazia non saremmo mai stati capaci nemmeno di concepire: la perfetta unità che, nella Chiesa, lo Spirito Santo suscita e continua a generare.
Si realizza la preghiera del Signore Gesù nell’ultima notte della sua vita terrena: Ut unum sint.
don Gianandrea Di Donna, Ufficio diocesano per la Liturgia