Vivere il meglio possibile il tempo che resta

Lettera diocesana_Sguardi_2022/03

Vivere il meglio possibile tutto il tempo che resta da vivere. È l’impegno di chi quotidianamente si dedica all’accompagnamento e alla cura di malati terminali per cui non c’è alcuna speranza se non quella di alleviare le sofferenze attraverso le cure palliative. Ossia quelle cure e terapie che permettono di agire sui sintomi, diminuire la sofferenza fisica e il dolore e permettere di vivere dignitosamente tutto il tempo che resta, né un minuto di più, né uno di meno. E non è una brutale evidenza, ma la ricerca di dare alla persona tutto il “suo” tempo di vita, al meglio. Perché “palliazione” come spiegano quanti ci lavorano h24 è «togliere tutto quello che ti può portare a star male, anche i pensieri di morte». Un’evidenza questa che si verifica continuamente: quando i pazienti arrivano, a volte massacrati dal dolore o dalle conseguenze della malattia, possono affacciarsi nei loro pensieri desideri di fine, ma quando la cura palliativa va ad agire sui sintomi e il dolore passa o si allevia, è la vita e la volontà di viverla appieno che prevale, per loro e anche per i familiari. Qui si apre lo spazio della relazione, che è una forma di cura importantissima in queste fasi.

Questa è la filosofia e l’impegno che si respira a Casa Santa Chiara a Padova, un hospice delle Suore francescane elisabettine dove l’intero gruppo – letteralmente dalla cuoca ai medici alla direttrice, passando per infermieri, operatori socio sanitari, psicoterapeuta, suore… – va a formare una famiglia attorno al malato e ai familiari stessi. Sì perché quando si arriva al “non c’è più niente da fare, in realtà c’è molto da fare: c’è bisogno di supportare i familiari che si domandano: come è possibile sia capitato proprio a lui/lei? Cosa accadrà ora? Come sarà? Possiamo vederlo/a? O non sono in grado di stare vicini al loro parente e non reggono la fatica della fase “agonica”. E prima ancora ci sono i pazienti che in alcuni casi sono consapevoli, in altri nascondono l’evidenza a sé stessi oppure permettono spiragli di dialogo e allora si aprono a quelle domande che non possono avere risposte, se non l’ascolto, la vicinanza, il silenzio presente: perché proprio a me? Quanto ho ancora da soffrire? Quanto manca?

Domande che vivono anche nell’animo di quanti sono lì per prendersi cura – medici, operatori, infermieri – il cui impegno non è (e non può essere) solo un lavoro, ma la scelta quotidiana consapevole di vivere la prossimità con la sofferenza e di essere un tassello di un puzzle di umanità, famiglia, assistenza che realizza e rende possibile la relazione – e la relazione di cura – in cui la gerarchia dei ruoli non conta, perché ciò che conta è stare vicino al malato, aiutarlo e sostenerlo in quell’ultimo tratto di vita, donando per quanto possibile serenità, sollievo alla sofferenza fisica e spirituale, il calore umano di una famiglia. Fondamentale è allora la costante supervisione di una psicoterapeuta per tutti gli operatori, che sostiene le fatiche, aiuta a elaborare il vissuto, permette di essere prossimi facendo un percorso anche su di sé, favorisce il mantenimento di un clima e di uno stile che è palpabile appena si mette piede a Casa Santa Chiara.

«Nessuno di noi – sottolineano a Casa Santa Chiara – può pensare di sostenere da solo queste situazioni. Non è possibile fare cure palliative se non c’è un lavoro di gruppo. Insieme gestiamo i sintomi, insieme viviamo l’accompagnamento e l’attesa».

Sara Melchiori
in dialogo con suor Lia Ragagnin, Anna Odorizzi, Daniele Seganfreddo, Bianca Maria Fraccaro (Casa Santa Chiara)