Tu chiamale se “puoi”… emozioni

Lettera diocesana_Sguardi 2021/02

Nel 1994 Susanna Tamaro pubblicava il libro “Va dove ti porta il cuore” e la frase conclusiva: «Stai ferma e ascolta il tuo cuore. Quanto poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta» è divenuta una specie di motto per testimoniare il valore delle emozioni nella vita delle persone.Solo tre anni dopo, nel 1997, usciva in Italia “Intelligenza emotiva” di Daniel Goleman il testo in cui per la prima volta si dichiara come la qualità delle prestazioni dell’essere umano non dipendano esclusivamente o prevalentemente dalle sue abilità cognitive (il famoso Quoziente Intellettivo) quanto piuttosto dalla capacità di saper: riconoscere, gestire e utilizzare le proprie emozioni. Di “emozioni” si è detto, scritto, cantato, studiato molto e queste due prospettive, tra loro assolutamente complementari, rappresentano un’interessante cornice di sintesi. Si è partiti, come spesso accade, dall’età evolutiva incominciando a riconoscere il valore dell’espressione delle proprie emozioni nei bambini. L’opinione dominante sino a circa trent’anni fa (ad oggi non ancora completamente superata) era che le emozioni fossero sostanzialmente degli impedimenti al ben-essere della persona, che dovessero essere il più possibile trattenute e nascoste perché fanno emergere la parte più vulnerabile di noi, quella meno controllabile e dominabile. In passato se si concedeva ai bambini di esprimersi emotivamente era solo per aiutarli “a non farlo più”, perché “i bambini grandi non piangono” ed “è pericoloso che gli altri sappiano cosa tu provi”.

Per certi aspetti l’ultimo decennio ha rappresentato un’esagerazione sul versante opposto, si è passati cioè dall’iper-controllo all’idea che le emozioni siano l’unico riferimento da considerare nella presa di decisioni soprattutto in campo affettivo, producendo una forma di assoluta legittimizzazione dei contenuti affettivo emotivi, per cui qualsiasi azione, qualsiasi scelta sia dettata da un’emozione diviene per sua natura positiva, opportuna, buona, utile. Si tratta di una forma di egocentrismo emotivo che ben rispecchia un certo egocentrismo sociale che sembra essere assai presente ai nostri giorni. “Io, mio, voglio tutto ciò che mi fa stare bene, lo voglio subito e lo voglio ad ogni costo” è divenuta l’espressione estrema di quell’ascoltare il proprio cuore e andare ovunque egli ci porti senza considerare i rischi per noi stessi per gli altri. Il disturbo alessitimico (dal greco a-«mancanza», lexis«parola» e thymos «emozione» dunque: «mancanza di parole per [esprimere] emozioni») è particolarmente diffuso nella nostra società sia nei bambini, sia nei giovani, sia negli adulti. Non avere un vocabolario emotivo non è ovviamente un problema cognitivo, quanto piuttosto una fragilità relazionale con se stessi e con gli altri. Infatti avere una capacità emotiva ridotta che impedisce di riconoscere e di descrivere i propri stati emotivi e quelli altrui porta a un aumento dell’aggressività interpersonale, dell’ansia prestazionale oltre che delle conversioni somatiche con un incremento dell’utilizzo di farmaci; tutti aspetti questi in notevole aumento negli ultimi anni. Citando Goleman, dedicare tempo e spazio alla consapevolezza del proprio vissuto emotivo, imparando a comprendere ciò che emotivamente sentiamo, sviluppando la capacità di orientarci verso le nostre mete personali, persistendo nel raggiungere i nostri obiettivi nonostante le frustrazioni, è l’unico modo per agire attivamente per incrementare la nostra felicità. Chiedere come stai e non cos’hai fatto oggi, riuscire a dire come quella cosa mi abbia fatto sentire, allenarci ad assumere il punto di vista dell’altro, permettere all’emozione anche la più intensa (sia positiva, sia negativa) di abitarci senza esserne travolti sono piccoli esempi di come sia possibile andare intelligentemente dove il cuore ci porta.

Un ultimo accenno deve essere fatto in merito a questo particolare periodo pandemico, nella consapevolezza che stiamo aprendo un discorso nuovo che avrebbe bisogno di spazi più dilatati, è utile sottolineare come l’isolamento prodotto dalla pandemia abbia inevitabilmente ridotto le occasioni spontanee e strutturate di azione sui propri vissuti emotivi. Sempre per usare i costrutti proposti da Goleman: auto-consapevolezza, auto-motivazione, empatia e comunicazione emotiva sono stati notevolmente compromessi da una modalità relazionale prevalentemente virtuale e necessariamente asettica (mascherina, distanziamento, nessun contatto fisico); questo ha portato a una notevole diminuzione delle abilità di riconoscimento, gestione e azione emotiva con un aumento degli estremismi di cui abbiamo parlato (ipercontrollo versus totale legittimizzazione). La consapevolezza di questo ci obbliga a pensare alla realizzazione di spazi e momenti di cura personale e relazionale non tanto mirati al sapere e al fare quanto piuttosto al sentire, affinché il dolore vissuto non spenga la speranza.

Silvia Destro, psicologa e psicoterapeuta